IPOTIROIDISMO: un nemico silenzioso

L’ipotiroidismo è una malattia cronica che colpisce un’elevata percentuale della popolazione, soprattutto femminile, e più frequentemente sopra i 60 anni. Consiste in una ridotta funzione degli ormoni tiroidei, potenti regolatori dei processi energetici, che provoca un abbassamento del metabolismo cellulare con conseguenze dannose per l’intero organismo. Si tratta di una patologia insidiosa nella sua comparsa e quindi difficile da diagnosticare in fase iniziale. Stanchezza, debolezza cronica, sonnolenza, depressione, difficoltà di concentrazione e perdita della memoria recente sono tra i primi campanelli d’allarme. Ma anche una maggiore intolleranza al freddo, unghie e capelli fragili o cute secca sono segnali di una ridotta funzionalità tiroidea. Inoltre chi soffre di ipotiroidismo riscontra una difficoltà a dimagrire nonostante il rispetto di dieta ipocalorica e la pratica di una regolare attività fisica. Come vediamo, la sintomatologia è molto varia e fastidiosa ma spesso sottovaluta sia dal medico sia dal paziente che, progressivamente, si abitua a star peggio senza accorgersi per tempo di avere un problema alla tiroide. Gli esami del sangue assieme ad un’attenta anamnesi possono essere determinanti per formulare una diagnosi tempestiva e correre ai ripari. Il TSH è l’indicatore più sensibile e specifico del funzionamento tiroideo: un aumento del TSH evidenzia una condizione di ipotiroidismo. Per confermare la diagnosi, in presenza di livelli alti di TSH, è indicato misurare anche l’FT4 e l’FT3, che è l’ormone attivo. Anche se occorre sottolineare che nelle fasi iniziali di ipotiroidismo spesso il TSH risulta aumentato, mentre l’FT3 ancora nella norma. Anche gli anticorpi (anti-tireoglobulina e anti.tireoperossidasi) sono utili nella diagnosi dell’ipotiroidismo dal momento che la forma autoimmune è la più frequente (Tiroidite di Hashimoto). Esistono infatti due tipi di ipotiroidismo: primario, causato da una patologia della tiroide, e secondario, causato da una malattia dell’ipofisi o dell’ipotalamo. L’ipotiroidismo primario è la forma di gran lunga più diffusa ed è dovuto ad una patologia della tiroide, solitamente di origine autoimmune. Può essere anche di tipo congenito soprattutto nei casi di una severa carenza di iodio. Una volta diagnosticato l’ipotiroidismo primario, sarà il medico a prescrivere una terapia farmacologica specifica che consiste nella somministrazione di L-tiroxina, l’ormone tiroideo mancante, per riportare i valori di TSH nella norma. Gli studi più recenti si stanno concentrando sul ruolo chiave del T3, che è il “vero ormone attivo” della tiroide, per valutare l’opportunità di somministrare una piccola quota di quest’ultimo assieme alla L- tiroxina. L’ipotiroidismo secondario, decisamente più raro, è invece causato da un deficit dell’ipotalamo che produce insufficiente TRH o dell’ipofisi che produce insufficiente TSH. Come detto in precedenza, il TSH è l’ormone che stimola la tiroide: una sua carenza provoca questa particolare forma di ipotiroidismo. Come un bravo direttore d’orchestra la tiroide regola le principali funzioni del nostro organismo per assicurarci benessere ed equilibrio. Ascolta il tuo corpo: uno screening tempestivo può fare la differenza!

Spiedini di pollo marinato nel lime con semi di sesamo

Una ricetta gustosa e leggera ideata dalla food blogger Silvia Musajo con la collaborazione del dott. De Nobili, massimo esponente italiano di medicina potenziativa, esperto in medicina antiaging, dietetica e nutrizione.          In Italia l’assunzione di sale è decisamente superiore a quella raccomandata di 5 grammi al giorno. È stimato, infatti, che il consumo medio giornaliero è di 10,6 g negli uomini e di 8,2 g nelle donne. Una dieta troppo ricca di sale può portare ipertensione, malattie cardiovascolari e facilitare l’insorgenza di obesità e osteoporosi. Per limitarne l’assunzione possiamo insaporire le nostre pietanze con spezie ed erbe aromatiche. Ecco una ricetta per realizzare un piatto saporito e adatto anche a chi segue una dieta iposodica. Ingredienti per 4 persone 600 gr di petto di pollo Un cucchiaio di olio evo Un lime Un pezzo di 3 cm di zenzero fresco Uno spicchio d’aglio Pepe bianco q.b. Mezza zucchina Mezzo peperone rosso 5 gr di semi di sesamo tostati Foglie di cerfoglio q.b. Procedimento Tagliate il petto di pollo a pezzi spessi circa 3 cm e trasferitelo in una ciotola. Sbucciate lo spicchio d’aglio, tagliatelo per il lungo ed eliminate il germoglio centrale; sbucciate lo zenzero e tritatelo con un coltello affilato insieme all’aglio. Schiacciate il trito ottenuto utilizzando uno spremiaglio in modo da estrarre solo il succo e la parte di polpa più tenera, unitelo al pollo. Aggiungete alla carne il succo del lime, pepe bianco a piacere e mescolate bene. Aggiungete infine l’olio evo e mescolate nuovamente, coprite la ciotola con pellicola e lasciate riposare in frigorifero per almeno un’ora. Tostate i semi di sesamo: metteteli in un pentolino su fiamma vivace, quando inizieranno a scoppiettare muoveteli per qualche secondo facendo ruotare la pentola, appena li vedrete diventare un po’ più scuri e sentirete un profumo gradevole, trasferiteli immediatamente in una ciotola e fateli raffreddare. Trascorso il tempo di riposo del pollo marinato nel lime, infilzate i pezzi di carne negli spiedini alternandoli a fette di zucchina e peperone rosso. Potete cuocere gli spiedini su una piastra o una griglia antiaderente ben calda, 2-3 minuti per lato. Cospargete gli spiedini di pollo marinato nel lime con i semi di sesamo e le foglie di cerfoglio, servite subito.

Insalata di asparagi e quinoa con gamberi

Una ricetta gustosa e leggera ideata dalla food blogger Silvia Musajo con la collaborazione del dott. De Nobili, massimo esponente italiano di medicina potenziativa, esperto in medicina antiaging, dietetica e nutrizione.                                                                                                                                                                                                                                      

Gli asparagi sono ricchi di antiossidanti e fibre che, oltre ad aiutare il transito intestinale, riducono i livelli di assorbimento di colesterolo e glucosio dopo i pasti.

Hanno un indice glicemico molto basso e per questo sono indicati anche nell'alimentazione dei soggetti diabetici. Ecco la ricetta di un piatto completo, leggero e gustoso dove gli asparagi sono i protagonisti. Ingredienti per 4 persone
  • 400 gr di asparagi
  • 300 gr di code di gambero
  • 250 gr di quinoa mista
  • 3 cucchiai di olio evo
  • Il succo di mezzo limone
  • Erba cipollina fresca q.b.
  • Sale e pepe q.b.
Procedimento Per preparare questa gustosa insalata di asparagi, la prima cosa da fare è sciacquare molto bene la quinoa in modo da eliminare le saponine che la ricoprono e che le danno un sapore lievemente amaro. Mettete la quinoa in un grande colino a maglie sottili, inserite il colino in una ciotola e riempitela di acqua fredda corrente. Smuovete la quinoa girandola con le dita, quindi sollevate il colino e buttate via l’acqua che sarà diventata un po’ torbida. Ripetete questa operazione almeno 3-4 volte. In una pentola portate a bollore 350 ml d’acqua leggermente salata e versatevi la quinoa precedentemente sciacquata e ben scolata. Fate cuocere a fiamma moderata fino a quando l’acqua non sarà completamente assorbita (10-15 minuti), mescolate delicatamente di tanto in tanto. A cottura ultimata spegnete la fiamma e coprite la pentola con un coperchio, lasciate riposare per 5 minuti. Trascorso questo tempo, trasferite la quinoa in una ciotola, aggiungete un cucchiaio d’olio evo e mescolatela delicatamente con una forchetta per sgranarla; coprite la ciotola e lasciate raffreddare. Sciacquate e sgusciate le code di gambero, praticate con un coltello affilato una leggera incisione lungo i dorsi ed eliminate gli intestini. Cuocete i gamberi in acqua bollente salata per un minuto quindi trasferiteli in una ciotola, copritela e lasciate raffreddare. Eliminate la parte più spessa e dura dei gambi degli asparagi, lavateli e cuoceteli in acqua bollente leggermente salata per 2-3 minuti (secondo la loro dimensione) avendo cura che restino croccanti. Una volta pronti, trasferiteli subito in una ciotola con acqua fredda (meglio se con ghiaccio) in modo da bloccare la cottura. Tagliate gli asparagi a piccole rondelle lasciando le punte intere, uniteli ai gamberi e alla quinoa e condite con 2 cucchiai di olio evo, il succo di mezzo limone, erba cipollina tritata a piacere, sale e pepe. L’insalata di asparagi, quinoa e gamberi può essere servita sia a temperatura ambiente che fredda.

OMOCISTEINA: acido folico e vitamina B per combattere l’iperomocisteinemia

Di recente si è tornati a parlare di omocisteina, oggetto di diversi studi per appurare la correlazione esistente tra i livelli alti di questo amminoacido e il rischio di sviluppare diverse patologie. Facciamo un passo indietro per capire esattamente di cosa si tratta. L’omocisteina deriva dalla metabolizzazione della metionina, un aminoacido essenziale che il nostro organismo non è in grado di sintetizzare in maniera autonoma e pertanto deve essere introdotto con l’alimentazione. Fondamentale per la fisiologica eliminazione dei metalli pesanti, per il benessere delle cartilagini, così come delle unghie e dei capelli, la metionina è presente in diversi alimenti proteici come carne, uova, pesce, legumi e alcuni cereali. Ogni volta che mangiamo proteine, il corpo trasforma la metionina in esse contenuta in omocisteina grazie alle vie metaboliche. Quando le vie metaboliche si saturano, l’omocisteina entra in circolo causando un innalzamento dei livelli contenuti nel plasma. Questo fenomeno, chiamato iperomocisteinemia, è considerato un importante fattore di rischio per le malattie cardiovascolari (aterosclerosi e infarto del miocardio), ma non solo. Sempre più studi evidenziano la correlazione che c’è tra un eccesso di omocisteina e lo sviluppo di malattie neurodegenerative (demenza senile e Alzheimer) e muscoloscheletriche (osteoporosi e artrite reumatoide). Pertanto è bene monitorare costantemente questo valore insieme a quello della vitamina B12 e dell’acido folico grazie ad un semplicissimo prelievo di sangue. Tuttavia se gli esami evidenziano elevati livelli di omocisteina, saranno necessarie ulteriori indagini per individuarne la causa. L’iperomocisteinemia può essere dovuta ad anomalie congenite, a terapie farmacologiche, infezioni o malassorbimento intestinale, stress, ansia, malnutrizione o ancora cattive abitudini alimentari. Si è visto che la maggior parte dei pazienti affetti da iperomocisteinemia segue una dieta povera di vitamine del gruppo B (in particolare B6 e B12) e di folati, indispensabili per il metabolismo dell’omocisteina. Un corretto apporto quotidiano di queste vitamine, grazie ad una dieta mirata e all’assunzione di integratori specifici, se necessario, insieme ad una regolare attività aerobica è la prima forma di cura e prevenzione per abbassare i livelli plasmatici di omocisteina. Anche il Ministero della Salute, nel documento che contiene le linee guida per la prevenzione dell’aterosclerosi, risalente al 2004, inserisce l’iperomocisteinemia tra i fattori di rischio e consiglia l’assunzione di acido folico, vitamina B6 e B12.  

VITAMINA D: tutti i benefici della vitamina del sole

La vitamina D viene in grande parte accumulata dal nostro organismo attraverso l’esposizione ai raggi solari e va integrata soprattutto, ma non solo, in situazioni particolari, legate alla crescita, alla gravidanza e all’allattamento. In natura la vitamina D si presenta sotto due forme: la vitamina D2 (o ergocalciferolo), presente prevalentemente nei vegetali, e la vitamina D3 (o colecalciferolo), che viene sintetizzata dal nostro organismo in seguito all'esposizione ai raggi solari. Solo un terzo del fabbisogno giornaliero di vitamina D proviene dall'alimentazione, mentre il restante deve essere in ogni caso ricavato dall’esposizione al sole o, in sua mancanza, da integratori. Tuttavia, un consumo regolare dei cibi che ne sono più ricchi può in parte contribuire a controbilanciare l'insufficiente produzione di vitamina D3, soprattutto nei periodi di minore esposizione ai raggi solari, come nei mesi autunnali e invernali. Tra gli alimenti che contengono le maggiori quantità di vitamina D ricordiamo soprattutto alcuni tipi di pesce, come il salmone, le sardine, lo sgombro, il tonno e merluzzo; i derivati del latte intero; le uova e i funghi secchi. La vitamina D, regolando il metabolismo del calcio e del fosforo, è utile nell'azione di calcificazione delle ossa e nel mantenimento dell’equilibrio della struttura del tessuto osseo nel corso della vita adulta. L'esperienza clinico-pratica e gli studi scientifici condotti negli ultimi anni stanno aprendo a nuove ipotesi riguardo le funzioni della vitamina D, che può essere definita un “para-ormone", dal momento che permette il corretto funzionamento di circa tremila geni. La vitamina D risulta essere importante sia nella secrezione insulinica (nel controllo del diabete tipo II) e nel dimagrimento, sia nell’integrità cardiovascolare, nella cancerogenesi (legata alla crescita e differenziazione cellulare), nelle malattie auto-immuni e nella funzione del tessuto muscolare e di quello nervoso. Dal momento che la vitamina D interviene nella regolazione di innumerevoli funzioni metaboliche fondamentali, un suo apporto insufficiente, se protratto a lungo, potrebbe portare allo sviluppo di innumerevoli disturbi e disfunzioni. Ecco perché è fondamentale mantenere adeguati livelli di vitamina D, sia in fase di sviluppo per evitare problemi legati al rachitismo e allo sviluppo di fragilità e malformazioni ossee, sia in età adulta per scongiurare problematiche legate alla perdita di massa ossea (osteopenia) e all’osteoporosi. Come già illustrato, la fonte di vitamina D per eccellenza è l’esposizione alla luce solare. Sono sufficienti 20 - 30 minuti al giorno in pieno sole per assicurarsi tutti i benefici. I tempi di esposizione possono variare a seconda della stagione, della latitudine alla quale si abita e del fototipo di appartenenza della pelle. La vita moderna, tuttavia, si svolge sempre meno all'aria aperta e questo spiega come mai molte persone abbiano un deficit di vitamina D, indipendentemente dal tipo di dieta seguito. Appare spesso necessario, quindi, ricorrere all’integrazione di vitamina D, che andrebbe assunta preferibilmente con dosi quotidiane (da 1000 a 4000 UI a seconda dei casi) e non a dosi settimanali o mensili, per raggiungere valori ottimali di concentrazione nel sangue pari a 50-60 ng/ml. Un supplemento di vitamina D può essere particolarmente utile durante la gravidanza, poiché è stato osservato che l'esposizione del feto a quantità insufficienti di vitamina D può incidere negativamente sullo sviluppo scheletrico nei primi anni di vita.

COACHING NUTRIZIONALE: il percorso per un’alimentazione consapevole

Esperto in Medicina Anti-Aging e perfezionato in Dietetica e Nutrizione, il Dottor Emanuele De Nobili vanta una certificazione anche nel campo del Coaching Nutrizionale, acquisita attraverso corsi di alta formazione. Oltre a comprendere appieno l’esperienza alimentare del paziente, guidandolo in modo efficace nel percorso nutrizionale, l’attività del Dottor De Nobili ne valorizza la componente psicologica e motivazionale. Il coaching nutrizionale è una specializzazione volta al raggiungimento degli obiettivi legati all’alimentazione e alla dieta. Le persone interessate a seguire questo tipo di terapia si incentrano nell’acquisizione di abitudini alimentari salutari. Il coaching nutrizionale può essere definito come una metodologia di lavoro che offre supporto nel raggiungimento di obiettivi e nella modifica delle proprie abitudini alimentari. In questo modo la persona identifica e supera i propri ostacoli, crea l’ambiente adeguato e adotta l’atteggiamento e la determinazione necessari per raggiungere il cambiamento nella propria alimentazione, riuscendo a sua volta a migliorare altri aspetti personali e dello stile di vita. In nessun caso comunque il coach nutrizionale sostituisce il lavoro del professionista sanitario con competenze in nutrizione, come il medico o il nutrizionista, ma integra le sue conoscenze tecniche e il trattamento indicato, offrendo il supporto necessario per raggiungere la disposizione e la motivazione verso il cambiamento nello stile di vita del cliente. Nelle sessioni di coaching il coach non segue il paziente solo nell’ambito nutrizionale, ma lavora anche a livello psicologico ed emotivo affinché sia lo stesso cliente a responsabilizzarsi circa il proprio processo di cambiamento, arrivando ad adottare, così, delle abitudini di vita salutari e durature. Per fare ciò il coach motiva e guida il paziente, potenziandone autostima e fiducia nelle proprie abilità. Una delle differenze principali tra il coaching nutrizionale e il modello tradizionale delle diete riguarda proprio il ruolo ricoperto dal paziente. Il coaching nutrizionale si identifica, infatti, come una metodologia pro-attiva, in cui il concetto di paziente cambia da soggetto passivo a soggetto attivo, il quale si assume la responsabilità delle proprie azioni, cosciente dell’importanza di prendersi cura di se stesso. Questa visione fa sì che l’interessato sia il centro e l’origine delle possibili soluzioni o miglioramenti. Si tratta, dunque, di un lavoro personalizzato tra coach e coachee con l’obiettivo di capire in che modo la vita attuale del paziente contribuisca all’adozione di comportamenti poco salutari, per poi intervenire con strategie ottimali nel cambiamento nella condotta. Hai mai pensato di seguire una sessione di Coaching Nutrizionale? Il Dottor De Nobili ti offrirà il supporto per rimetterti in forma e aumentare l’autostima! Invia la tua richiesta qui  

DIETA CHETOGENICA: 3 fasi per dire addio ai chili in eccesso!

La dieta chetogenica o VLCKD (very low calory ketogenic diet) deve il suo successo ad un mix di fattori che la rendono efficace e facile da seguire. Permette di perdere 1.5-2 kg circa a settimana, garantendo il raggiungimento del peso desiderato in tempi più brevi rispetto alle diete tradizionali. Un riscontro così gratificante sulla bilancia contribuisce a motivare il paziente nel suo percorso di dimagrimento, grazie anche all'effetto euforizzante dei corpi chetonici, che inibiscono il senso di fame dopo sole 48-72 ore. È proprio sul meccanismo della chetosi che si basa questo programma che favorisce una perdita di peso quasi totalmente a carico del tessuto adiposo, preservando la massa magra grazie all'introduzione di proteine ad alto valore biologico. Si tratta di un protocollo di transizione per dimagrire e rieducare il metabolismo ad un buon funzionamento in modo tale che, una volta raggiunto il proprio peso forma, si possa tornare ad uno stile alimentare corretto e non alle vecchie “cattive” abitudini. Per questo la dieta chetogenica si compone di 3 fasi, ciascuna delle quali con degli obiettivi intermedi da raggiungere. La prima fase consiste nella sostituzione dei pasti con degli integratori proteici, dai gusti assortiti sia nel dolce sia nel salato. Questo semplifica la gestione quotidiana della dieta anche fuori casa, facilitando l’aderenza al programma e soddisfacendo il palato del paziente. In questa fase che, generalmente dura dai 14 ai 21 giorni, si raggiunge e mantiene lo stato di chetosi. I corpi chetonici contribuiscono alla scomparsa del senso di fame e, in assenza di zuccheri, l’organismo brucia i grassi convertendoli in fonte di energia. La seconda fase, che porterà al raggiungimento del peso desiderato, prevede la graduale introduzione delle fonti proteiche tradizionali. Quindi in uno solo dei pasti principali, a discrezione del paziente, sarà possibile consumare alimenti proteici come carne, uova o pesce. Anche in questa fase, così come nella precedente, è consentito assumere delle verdure a basso indice glicemico e piccole quantità di olio crudo per il condimento. La terza fase, detta anche fase di transizione, è particolarmente delicata: mira alla stabilizzazione e al mantenimento del peso raggiunto. Nel corso di questa fase inizia la reintroduzione graduale e controllata dei carboidrati. Di solito vengono inseriti prima i carboidrati semplici, come frutta e verdura, per poi passare a quelli complessi come cereali, pane e legumi. Lo scopo di questo step è rieducare le proprie abitudini per acquisire uno stile alimentare sano e variato, basato su un corretto bilanciamento dei vari nutrienti: carboidrati, proteine e grassi. È il momento giusto per riscoprire il benessere psicofisico che deriva da un leggero ma regolare esercizio fisico, compagno di viaggio per non incorrere in ricadute e non recuperare i chili persi.  

DIETA CHETOGENICA: molto più di una dieta, un protocollo terapeutico

Spesso dibattuta, la dieta chetogenica è uno strumento dalle numerose potenzialità: impiegata nel dimagrimento, ma anche nel trattamento di disordini metabolici come il diabete di tipo II, le dislipidemie e le malattie cardiovascolari. Questo particolare regime alimentare basa la sua efficacia sulla capacità del nostro organismo di utilizzare le riserve di grasso come primaria fonte di energia quando diminuisce la disponibilità di glucosio. La dieta chetogenica infatti si articola fondamentalmente su due principi: la riduzione drastica del consumo di carboidrati e la restrizione calorica, che solitamente si attesta intorno alle 800/900 kcal. Erroneamente viene spesso confusa con una dieta iperproteica e dall’elevato tenore di grassi animali. In realtà non è affatto così: si tratta piuttosto di una dieta ipocalorica in cui la quota proteica, che deve avere preferibilmente un alto valore biologico, viene mantenuta entro livelli fisiologici per preservare la massa muscolare. È così possibile ottenere non soltanto una perdita di peso, ma raggiungere un dimagrimento effettivo a carico della massa grassa e non di quella magra, che invece non viene intaccata. Per sopperire alla mancanza di zucchero, grazie ad un processo di beta-ossidazione, il fegato produce delle molecole chiamate chetoni. Tali sostanze hanno un effetto euforizzante in grado di contrastare la sensazione di stanchezza e inibire la fame, che generalmente scompare dopo il 2°-3°giorno permettendo, nella maggior parte dei casi, di portare a termine la dieta con successo. Naturalmente, come tutte le diete, anche la dieta chetogenica deve essere effettuata su indicazione del medico che personalizza il protocollo in base alle esigenze del paziente e deve essere seguita solo per brevi periodi. In linea di massima, la quota proteica corrisponde a 1-1,5 gr per kg di peso corporeo e oscilla tra i 50 e i 120 gr giornalieri. Mentre l’apporto di grassi è compreso tra i 20 e i 60 gr. Sono da preferire i cibi contenenti grassi insaturi come l’olio extravergine di oliva, la frutta secca e il pesce; mentre è opportuno limitare il consumo di carni grasse, formaggi stagionati e insaccati. Occorre inoltre sfatare la leggenda metropolitana secondo la quale durante la dieta chetogenica i carboidrati vengono del tutto eliminati. Solitamente si tende a conservare una quota minima pari a 40-50 gr giornalieri in modo tale da evitare un eccessivo abbassamento del metabolismo basale e scongiurare l’effetto rebound, ossia il recupero di tutti i chili persi. Grazie alla pluralità di vantaggi che offre, questo tipo di dieta risulta efficace in diverse situazioni. La rapidità dei risultati (si stima un calo medio di 1-1.5 kg a settimana), il mantenimento della massa muscolare e la riduzione del senso di fame rendono la dieta chetogenica particolarmente indicata nei casi di obesità e sovrappeso. È un valido strumento terapeutico nelle persone affette da malattie metaboliche associate ad insulino-resistenza quali dislipidemie, diabete di tipo II e iperglicemia. Inoltre, grazie al ridotto apporto di zuccheri, riduce il rischio di sviluppare stati infiammatori cronici, responsabili di patologie come il cancro, malattie muscoloscheletriche e neurodegenerative. Alcuni studi in corso rivelano una possibile applicazione della dieta chetogenica nel trattamento di patologie a carico del sistema nervoso come il Parkinson, grazie ad un abbassamento dei livelli di stress ossidativo, e l’Alzheimer, grazie alla capacità dei corpi chetonici di limitare i danni cellulari.

SINDROME DELL’OVAIO POLICISTICO: la dieta per combattere l’insulino-resistenza

Uno tra i principali sintomi della sindrome dell’ovaio policistico è il sovrappeso, correlato spesso all’insulino-resistenza. L’insulina è un ormone, secreto dal pancreas, che permette il passaggio del glucosio nelle cellule, regolando la sua concentrazione nel sangue. In presenza di insulino-resistenza, le cellule sono meno sensibili all’azione di questo ormone. Di conseguenza le “solite” quantità di insulina non sono più sufficienti per trasportare il glucosio all’interno delle cellule, ma l’organismo è costretto a produrne una maggiore quantità per mantenere costante la glicemia. L’aumento dei livelli di insulina però si accompagna anche ad un aumento del peso corporeo, poiché si tratta di un ormone lipogenico che provoca l’accumulo di tessuto adiposo. Infatti, oltre ad essere la principale causa di infertilità femminile, la sindrome dell’ovaio policistico aumenta il rischio di diabete e di malattie cardiovascolari. Per questo motivo è di fondamentale importanza intervenire sull’insulino-resistenza, a partire da uno stile di vita sano basato su una dieta equilibrata ed una regolare attività fisica. Perdere almeno il 10% del peso corporeo favorisce il fisiologico equilibrio ormonale e riduce il rischio di malattie metaboliche. Molti studi dimostrano che nelle donne insulino-resistenti, a parità di calorie fornite, risulta più efficace una dieta iperproteica rispetto ad una normoproteica. Grazie al ridotto apporto di zuccheri, le diete iperproteiche o chetogeniche favoriscono la perdita di massa grassa e l’incremento di massa magra, aumentando il metabolismo basale e preservando il tono muscolare. Per mantenere l’insulina bassa e costante è bene “mangiare poco e spesso”: dividere il fabbisogno calorico della giornata in 5 o 6 piccoli pasti, composti da alimenti a basso indice glicemico (IG). Meglio evitare gli zuccheri raffinati, optando invece per i cereali integrali come segale, orzo e avena che, grazie all’elevato tenore di fibre, rallentano l’assorbimento dei nutrienti e contribuiscono a regolare i livelli della glicemia. Anche la modalità di cottura incide sull’indice glicemico degli alimenti: le alte temperature della frittura o della brace innalzano l’IG dei cibi; mentre la bollitura o il vapore, decisamente più salutari, lo abbassano. Per difendersi dal colesterolo “cattivo” è bene evitare il consumo di grassi, soprattutto quelli saturi e idrogenati: prestando attenzione non soltanto ai condimenti, ma anche ai grassi presenti naturalmente negli alimenti. È bene quindi limitare il consumo di formaggi, uova, insaccati e carne rossa, optando piuttosto per le carni magre, preferibilmente bianche. Via libera al pesce, in particolare quello azzurro, ricco di omega 3 e omega 6 che svolgono un’importante azione antinfiammatoria e riducono il rischio di malattie cardiovascolari. In tavola non devono mai mancare frutta e verdura fresche di stagione, che garantiscono un prezioso apporto di antiossidanti, vitamine, sali minerali e fibre. Da bere sotto forma di centrifugati o da gustare come spuntino, depurano l’organismo e favoriscono il senso di sazietà in poche calorie. Eliminare il fumo e ridurre il consumo di alcol sono abitudini salutari, raccomandate sempre e comunque nell’ottica di uno stile di vita sano. Così come una regolare attività fisica: è sufficiente praticare 35 minuti al giorno di attività aerobica come la camminata, la corsa o il nuoto per ridurre i livelli di colesterolo e di insulina, favorire il mantenimento del peso forma e migliorare la funzionalità ovarica. Come diceva Einstein ,“stupidità significa fare e rifare la stessa cosa aspettandosi risultati diversi”. Non è mai facile abbandonare le proprie abitudini, pur nella consapevolezza che sono scorrette, ma alle volte è necessario per percorrere la strada verso il benessere.  

SINDROME DELL’OVAIO POLICISTICO: i sintomi più diffusi e le cause principali

La sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) è un disturbo ormonale molto comune tra le donne in età fertile. Questa patologia causa un importante ingrossamento delle ovaie e lo sviluppo di microcisti. Le ovaie quindi non riescono più a rilasciare con regolarità gli ovuli da fecondare, rendendo spesso il concepimento difficoltoso. Infatti la sindrome dell’ovaio policistico è tra le principali cause dell’infertilità femminile. Irregolarità nel ciclo, ritardi oltre le quattro settimane dall’ultima mestruazione, flusso prolungato ed elevati livelli di androgeni, ormoni tipicamente maschili, sono tra i campanelli d’allarme più indicativi di questa patologia, che alle volte può però essere asintomatica. Anche fenomeni come irsutismo, acne e aumento di peso sono dovuti allo squilibrio ormonale, che favorisce l’aumento dei livelli di testosterone e androstenedione. Attualmente non è ancora nota la causa all’origine di questa patologia. Gli studi dimostrano che l’ereditarietà rappresenta uno dei principali fattori di rischio, sebbene siano ancora poco chiari i meccanismi di trasmissione. Sono sempre più numerose le ricerche che evidenziano la stretta correlazione che c’è tra l’insulina e la sindrome dell’ovaio policistico. Quasi il 70% delle donne che soffre di PCOS presenta insulino-resistenza e più del 50% è in sovrappeso o obesa. In particolare, si è visto che l’insulino-resistenza stimola le ovaie a formare cisti e a produrre una maggiore quantità di androgeni. Non a caso la cura dell’insulino-resistenza è spesso determinante nella risoluzione della sindrome dell’ovaio policistico, con il conseguente aumento della fertilità e il ripristino della regolarità del ciclo. Si tratta dunque di una patologia complessa, che interessa non soltanto l’apparato riproduttivo, ma anche il sistema endocrino e per questo richiede un approccio integrato su diversi fronti: l’insulino-resistenza infatti aumenta il rischio di malattie metaboliche come il diabete di tipo di 2 e malattie cardiovascolari. Attraverso l’ecografia ovarica e gli esami del sangue è possibile effettuare una diagnosi precoce che, insieme al mantenimento del proprio peso-forma, riduce notevolmente il rischio di complicanze. Una volta effettuata la diagnosi, sarà il medico a valutare la necessità o meno di una terapia farmacologica specifica. In ogni caso, la prima mossa per la cura della sindrome dell’ovaio policistico passa attraverso l’adozione di uno stile di vita sano. Gli studi dimostrano che perdere almeno il 10% del peso favorisce il ripristino della regolarità del ciclo mestruale. Una dieta equilibrata e un regolare esercizio fisico sono prevenzione e cura di questa patologia, e non solo.