ALIMENTAZIONE E FESTIVITA’: alcuni consigli per non esagerare

Si sa, le festività natalizie mettono a dura prova la nostra linea; si comincia con il cenone della Vigilia e si finisce con quello del 31, forse.  Il rischio di esagerare a tavola e far spostare l’ago della bilancia verso destra è dietro l’angolo.

In realtà, il nostro organismo ha dei meccanismi interni di autoregolazione che ci permetterebbero di mantenere il peso di partenza se gli eccessi calorici si limitassero ai tradizionali pasti del 24, 25 e 31 soprattutto se, tra una maratona gastronomica e l’altra, ci concedessimo qualche salutare passeggiata “digestiva”. Il problema è che, spesso, gli stravizi hanno inizio ben prima della Vigilia, con le varie cene di auguri, e si prolungano fino alla Befana, tra un brindisi con gli amici e una fetta di panettone con i parenti.

E allora si cerca di ricorrere a tutti gli escamotage possibili per limitare i danni. Molti pensano che digiunare tutto il giorno in vista di un cenone o viceversa andare a letto a stomaco vuoto dopo un lauto pranzo sia la soluzione, ma non è assolutamente così. Anzi, saltare i pasti è controproducente: l’organismo entra in uno stato di emergenza, chiamato “carestia”, per cui, dopo un digiuno, tende ad assimilare di più per sopravvivere alla scarsità di cibo. Oltretutto, arrivare affamati al pasto successivo aumenta il rischio di abbuffarsi davanti a tutte le leccornie presenti sulla tavola.

Ecco qualche piccolo accorgimento per evitare gli eccessi e godersi le feste senza sensi di colpa:

  1. Bevi di più

Se durante tutto l’anno bere almeno 2 L di acqua al giorno è buona norma, in occasione delle feste e di qualche peccato di gola di troppo è quanto mai fondamentale. L’acqua aiuta ad eliminare le tossine e i liquidi in eccesso, oltre a favorire una sensazione di sazietà.

  1. L’ attività fisica non va in vacanza!

Alzati da tavola prima di sentirti completamente sazio, per non dire pieno, e non cedere alla tentazione del divano subito dopo aver mangiato! È sufficiente una bella camminata a passo svelto di circa 30 minuti per riattivare il tuo metabolismo e favorire la digestione.

  1. “La prima digestione avviene nella bocca”

Mastica lentamente. Questo ti permetterà di assaporare fino in fondo le pietanze e goderti ogni singolo boccone, senza abbuffarti. Dopotutto, il buon cibo è l’occasione per rilassarsi con amici e parenti, lontani dalla solita routine frenetica.

  1. Di tutto un po’, grazie!

Non è necessario privarsi di niente; l’importante è tenere sotto controllo le porzioni.

  1. Qualità, non quantità!

Spesso davanti ai buffet delle feste o alle grandi tavolate, siamo portati a riempire il piatto di stuzzichini vari, senza scegliere attentamente cosa davvero vale pane di assaggiare. Questo Natale prova a mangiare meno, ma meglio!

  1. Aperitivi light

Via libera alle cruditè di finocchi, carote e sedano: decisamente più salutari delle patatine, meno caloriche e ricche di fibre, che riducono il senso di fame.

  1. Attenzione agli “avanzi”!

Probabilmente in casa sarà rimasto qualcosa di quel favoloso cenone della sera prima; tuttavia è meglio evitare di consumare quelle stesse portate nei giorni successivi: il rischio è di assumere troppe calorie. Dopo le abbuffate, così come nei giorni precedenti, abituati a consumare pasti più leggeri: meglio puntare su proteine vegetali o nobili come quelle contenute nel pesce bianco insieme ad abbondanti quantità di verdure.

  1. Un brindisi alla salute!

Concediti il piacere di un brindisi o di pasteggiare con un buon calice di vino, preferibilmente rosso, ma senza esagerare! Alcolici e superalcolici affaticano il fegato e aumentano l’introito calorico.

  1. Non saltare i pasti!

Come dicevamo all’inizio, saltare i pasti non eviterà di ingrassare. Anzi, rallenterà il tuo metabolismo.

  1. Vivi al meglio la magia di questi giorni speciali!

Fai il pieno di energie positive e prepararti ad accogliere al meglio questo nuovo anno!

 

 

Acido o Alcalino? Come preservare il naturale equilibrio

Alimentazione, stile di vita, stress, infezioni e inquinamento sono tra i principali fattori che influenzano in modo diretto l’equilibrio acido-alcalino, ovvero il risultato di una serie di reazioni chimico-fisiche che avvengono all’interno dell’organismo.

L’equilibrio acido-alcalino ideale è compreso in un intervallo relativamente ristretto: un livello di pH nel sangue superiore a 7 (tra 7,32 e 7,42); un livello di pH delle urine tra 6.5 e 7.2. Se i fattori che influenzano il metabolismo rimangono nei limiti fisiologici, la capacità di compensazione del sistema è in equilibrio e l’organismo rimane in salute. Se invece la capacità di compensazione è alterata (eccessivamente alcalina o eccessivamente acida), il sistema si scompensa e manifesta questo squilibrio con alcuni sintomi oppure vere e proprie malattie: acidità di stomaco, disturbi nella digestione, infiammazioni, febbre, dolori articolari, allergie.

Bisogna ricordare che i ritmi e le abitudini della vita moderna (ambiente, dieta, stress, consumo di farmaci, ecc.) portano più facilmente il nostro sistema metabolico verso l’acidosi. Di conseguenza l’organismo, che solitamente necessita di un pH leggermente alcalino per svolgere le sue funzioni vitali, si trova continuamente a dover contrastare questa condizione di acidosi espellendo gli acidi attraverso i polmoni, i reni e la pelle, ricorrendo anche ai sali minerali alcalinizzanti presenti nel cibo e nell’acqua (calcio, potassio, sodio, magnesio).

Ecco dunque che il mantenimento di un buon equilibrio acido-alcalino è fondamentale, soprattutto per chi fa medicina potenziativa e per coloro che seguono un percorso di nutrizione consapevole. Come sappiamo, in natura il mantenimento dell’equilibrio è dato dalla continua interazione tra condizioni opposte. Pertanto seguire una dieta sana non significa certo nutrirsi solo ed esclusivamente di alimenti alcalinizzanti, ma piuttosto cercare di raggiungere un buon equilibrio fra i due elementi opposti, l’acido e l’alcalino.

Tuttavia, come già sottolineato, i ritmi di vita frenetici, un’alimentazione disordinata, l’inquinamento ambientale, uno stile di vita sedentario e il consumo di alcol e farmaci spingono spesso il nostro organismo verso l’acidosi. Quindi per mantenere o ristabilire il corretto equilibrio acido-base vanno adottate misure alimentari corrette, come l’apporto di una maggiore quantità di cibi alcalini e un salutare stile di vita, nel quale dare spazio a movimento regolare, riposo e sonno adeguati.

Gli alimenti vengono classificati come acidificanti o alcalinizzanti in base all’impatto che hanno sul corpo e non in base al sapore più o meno acido. Sono considerati alcalinizzanti quegli alimenti che, una volta metabolizzati, rilasciano un residuo alcalino come frutta (compresa l’uva e gli agrumi), verdura, alghe e il sale, grazie al suo contenuto di sodio.

Sono invece definiti acidificanti quegli alimenti che, una volta metabolizzati, lasciano residui acidi, come l’acido solforico, fosforico o cloridrico. Tra gli alimenti acidificanti figurano la farina e i cereali, soprattutto quelli raffinati e quindi poveri di minerali, lo zucchero, i grassi e le proteine di origine animale. Si raccomanda infatti di accompagnare il consumo di questi alimenti ad abbondanti quantità di verdura fresca o di frutta (alcalinizzanti).

In definitiva, una dieta equilibrata dal punto di vista acido-alcalino si deve integrare con uno stile di vita sano. Un’adeguata idratazione per favorire l’eliminazione delle scorie ad opera dei reni; una costante attività fisica, preferibilmente di tipo aerobico a bassa intensità per facilitare l’eliminazione delle sostanze acide attraverso i polmoni; dormire circa 8 ore a notte per bilanciare lo stress cui la quotidianità ci sottopone e supportare l’attività del fegato, filtro anti-tossine del nostro corpo, con decotti specifici, per esempio, a base di Tarassaco, sono piccoli accorgimenti che possono aiutarci a mantenere un buon equilibrio acido-alcalino.

 

DIETA FODMAP: come convivere con la Sindrome dell’Intestino Irritabile

La Sindrome dell’Intestino Irritabile (IBS), o colon irritabile, è un disturbo che colpisce moltissime persone e si manifesta con crampi e dolori addominali, meteorismo e alternanza di diarrea e/o stitichezza. Questa fastidiosa sintomatologia può essere gestita e in buona sostanza curata, eliminando dalla propria dieta i cosiddetti “zuccheri fermentabili”.

Questi zuccheri sono in genere scarsamente assorbibili e vengono fermentati nell’intestino dai batteri del colon provocando gonfiore, gas e dolore addominale tipici della sindrome dell’intestino irritabile, appunto.

La dieta FODMAP riesce ad alleviare questi disturbi nel 75% dei casi.

Si tratta di un protocollo guidato che prevede l’eliminazione dei cosiddetti alimenti FODMAP per circa due/quattro settimane. In questo lasso di tempo, si assiste al progressivo miglioramento dei sintomi dell’infiammazione dell’intestino fino alla loro scomparsa, nella maggior parte dei casi. Successivamente, quindi, si reintroducono tutti gli alimenti gradualmente: un gruppo a settimana – monitorando i sintomi con un un diario alimentare.

Vediamo nel dettaglio ciascuna lettera dell’acronimo inglese FODMAP a cosa corrisponde:

F come FERMENTABILE – La fermentazione è quel processo di trasformazione degli alimenti che non vengono assorbiti dal nostro intestino e diventano nutrimento per i batteri che popolano il colon. Questo fenomeno causa una serie di fastidi come gonfiore, dolore, flatulenza e tensione addominale. Si è visto che soprattutto alcuni tipi di zuccheri possono peggiorare questa sintomatologia.

O come OLIGOSACCARIDI – Tra gli oligosaccaridi individuiamo fruttani e galattoligosaccaridi (GOS). I fruttani sono catene di fruttosio, lo zucchero presente nella frutta, che non sono digeribili per gli esseri umani. Sono scarsamente assorbiti nell’intestino e arrivano al 99% nel colon, dove i batteri li scompongono generando fermentazione. Sono contenuti soprattutto negli asparagi, nell’erba cipollina e nella cipolla, nell’aglio, nel cavolo cappuccio e nella cicoria. I galattoligosaccaridi invece sono presenti nella buccia dei legumi, come fagioli, ceci, lenticchie, fave, e aumentano l’irritabilità del colon.

D come DISACCARIDI (es. lattosio) – La sindrome del colon irritabile spesso è accompagnata dalla carenza di lattasi, l’enzima indispensabile per la digestione del lattosio. Tuttavia anche i soggetti con colon irritabile hanno una tolleranza di 6 g di lattosio al giorno circa, che corrispondono perlopiù a 125 ml di latte. Quindi è bene limitare il consumo di latte e latticini, preferendo i formaggi a pasta dura e lunga stagionatura (come parmigiano o grana 24-36 mesi) ove il lattosio è quasi del tutto fermentato, o come nel Brie e Camembert, che, nel loro processo produttivo, subiscono già passaggi di fermentazione.

M come MONOSACCARIDI (es. fruttosio) – Molti lamentano un’antipatica sensazione di gonfiore dopo aver mangiato la frutta fresca, questo perché un terzo della popolazione non assorbe correttamente il fruttosio. Innanzitutto è importante moderare il consumo di frutta, suddividendolo in 2-3 porzioni nell’arco della giornata. Meglio evitare mango, banana, mela e pera, che, in presenza di sindrome del colon irritabile, andrebbero consumate previa cottura. Anche il miele e lo sciroppo d’acero sono da usare con parsimonia poiché hanno una percentuale di fruttosio molto elevata.

P come POLIOLI (sorbitolo, mannitolo, xilitolo, maltitolo etc.) – I polioli sono tutti quei dolcificanti a basso contenuto calorico, che non sono assorbibili dal nostro intestino e molto difficili da digerire per gli enzimi digestivi. Se assunti in elevate quantità possono causando gonfiore, gas, dolore addominale caratteristico della Sindrome dell’Intestino Irritabile (o colon irritabile o IBS) e, in alcuni casi, diarrea.

La dieta FODMAP è un protocollo efficace e funzionale, volto a migliorare la qualità della vita dei pazienti che soffrono di Sindrome dell’Intestino Irritabile e di infiammazioni intestinali croniche. Naturalmente è bene evitare il “fai da te” e rivolgersi ad un medico esperto, in grado di elaborare un protocollo su misura per evitare carenze e massimizzarne i benefici.

Non dimentichiamo che “Il cibo che mangi può essere o la più sana e potente forma di medicina o la più lenta forma di veleno.”

FOOD FOR BRAIN: cosa mangiare per mantenere il cervello in salute

Vi siete mai domandati cos’è quell’improvvisa fame che ci coglie di sorpresa quando siamo concentrati sul lavoro o quando studiamo? Non è lo stomaco che brontola, ma il nostro cervello che ha bisogno di carburante, quello giusto per svolgere al meglio la sua attività. Il cervello è infatti un organo ad alta intensità energetica: consuma, cioè, circa il 20% delle calorie totali che assumiamo e necessita di alcuni nutrienti particolari per rimanere in salute più a lungo.

Esaminiamo insieme quali sono gli alimenti in grado di “allenare” il nostro cervello:

1. Pesce Azzurro

Gli Omega 3, presenti in abbondanti quantità nel pesce azzurro (salmone, tonno, sgombro, sardine e aringhe), intervengono nella formazione e nei meccanismi di riparazione delle membrane che si trovano attorno a tutte le cellule del nostro organismo, comprese quelle cerebrali. Svolgono una potente azione antiossidante, riducendo lo stress e l’infiammazione cellulare, responsabili dell’invecchiamento cerebrale e di diversi disturbi neurodegenerativi, come il morbo di Alzheimer.

2. Cioccolato fondente

 Oltre a far bene all’umore, piccole quantità di cioccolato fondente giovano anche alla salute del nostro cervello poiché i flavonoidi, contenuti nel cacao, favoriscono lo sviluppo di neuroni e vasi sanguigni in parti del cervello coinvolte nella memoria e nell’apprendimento.

 3. Bacche

 Così come il cioccolato fondente, anche le bacche garantiscono un eccezionale apporto di flavonoidi. In particolare antocianine, acido caffeico, catechina e quercetina che favoriscono le connessioni tra le cellule cerebrali e ne aumentano la plasticità, con effetti positivi sulla capacità mnemonica e di apprendimento. La loro azione antiossidante abbassa l’incidenza delle malattie neurodegenerative e del conseguente declino cognitivo. Via libera quindi a bacche di Goji, bacche di Acai, more, mirtilli, lamponi e fragole.

4. Frutta secca oleosa, semi e cereali integrali

La frutta secca oleosa, insieme ai cereali integrali, ha un elevato tenore di vitamina E, che, oltre a proteggere le cellule dai danni causati dallo stress ossidativo, supporta le capacità cognitive del nostro cervello e il suo corretto funzionamento soprattutto con l’avanzare dell’età. Non devono mai mancare noci, nocciole, mandorle e semi (di lino, di chia ecc..), ideali come spuntino o nelle insalate.

5. Caffè

Diversi studi hanno dimostrato che l’assunzione di caffeina, in dosi moderate e salvo particolari controindicazioni, migliora la capacità di elaborare le informazioni ed è correlata ad un minor rischio di demenza senile, morbo di Parkinson e Alzheimer.

 6. Avocado, anacardi e arachidi

Avocado, arachidi, anacardi, olio di soia, girasole e colza sono tra gli alimenti che vantano un maggior tenore di grassi insaturi, detti anche “grassi buoni” perché riducono il rischio di ipertensione, limitando l’insorgere delle malattie cardiovascolari e di quelle neurodegenerative. Nelle arachidi inoltre sono presenti buoni livelli di resveratrolo (così come nei gelsi e nel rabarbaro) che ha un’azione anti-infiammatoria.

 7. Uova

 Anche le vitamine del gruppo B (soprattutto B-6 e B-12), contenute soprattutto nelle uova, sono grandi alleate della salute del cervello poiché contribuiscono al metabolismo delle cellule cerebrali. La carenza di queste sostanze, riscontrata perlopiù negli anziani, è collegata ad una riduzione del volume cerebrale e al rischio di sviluppare nel tempo malattie come la depressione e il declino cognitivo.

 8. Broccoli, cavoli e rape

Le crucifere, come broccoli, cavolfiore, rape, cavolini di Bruxelles sono superfood per il nostro cervello: apportano glucosinolati e vitamina C che preservano le cellule cerebrali dall’azione ossidante dei radicali liberi.

La salute del nostro cervello passa attraverso un corretto stile di vita, fatto di sane abitudini, alimentazione equilibrata, attività fisica e pensieri positivi.

 

DIGIUNO INTERMITTENTE: per molti, ma non per tutti

La pratica del digiuno intermittente continua a far discutere e a dividere. Come abbiamo visto nell’articolo precedente, questa tecnica può essere declinata secondo diversi protocolli basati su brevi digiuni allo scopo di migliorare lo stato di salute generale. Viene eseguito solo sotto stretto controllo del medico e, pertanto, non ha niente a che vedere con alcuna forma di digiuno ascetico.

Molti studi sostengono che brevi parentesi di digiuno, alternati a fasi in cui il cibo viene consumato liberamente, possano simulare con una certa precisione le condizioni alla base del percorso evolutivo della specie umana.

I benefici di questa pratica sono numerosi. Innanzitutto favorisce un’immediata riduzione della massa grassa e del peso corporeo. Se il digiuno non supera le 72 ore, non vi sono rischi per la massa magra poiché l’organismo utilizza il grasso come principale fonte di energia attingendo alle scorte di trigliceridi del tessuto adiposo, e non alle proteine che costituiscono il muscolo.

Si è visto inoltre che il digiuno intermittente aiuta a combattere l’insulino-resistenza, una delle principali cause di obesità e sovrappeso: stabilizza i livelli di glucosio nel sangue e migliora la sensibilità all’insulina. Per questo è un protocollo indicato anche nella prevenzione del diabete di tipo II. 

Gli studi condotti fino ad oggi evidenziano anche un miglioramento del profilo lipidico nel sangue: diminuzione del colesterolo “cattivo” (LDL) e riduzione dei trigliceridi. Questi due parametri, quando superano i valori fisiologici, costituiscono un fattore di rischio rispettivamente per lo sviluppo delle malattie cardiovascolari e della sindrome metabolica, correlata all’insulino-resistenza.

Gli effetti benefici riguardano anche il miglioramento degli stati infiammatori cronici, alla base di molte malattie autoimmuni e neurodegenerative. Alcuni studi hanno infatti dimostrato che dopo 8 settimane, i pazienti sottoposti a digiuno intermittente hanno riportato livelli di stress ossidativo più basso e una riduzione del danno a carico del DNA. La scienza infatti sta valutando l’utilizzo di questi protocolli nella prevenzione e nel trattamento di alcune malattie come il morbo di Alzheimer.

Questa pratica inoltre promuove il rinnovamento cellulare: in presenza di una minaccia, come un temporaneo deficit calorico, l’organismo per sopravvivere attua dei meccanismi di difesa per proteggersi da eventuali danni, eliminare le cellule danneggiate e rigenerarsi. Il miglior turnover cellulare, da una parte, l’effetto protettivo nei confronti dei danni causati alle cellule dall’invecchiamento, dall’altra, contribuiscono a rendere l’organismo più forte e longevo, aumentando l’aspettativa di vita.

Infine diversi studi sul mondo animale hanno evidenziato una minor incidenza di determinati tumori. Nonostante al momento non esistano ancora ricerche condotte sull’uomo, i risultati finora raccolti lasciano supporre un possibile effetto del digiuno intermittente su alcuni fattori di rischio per diverse patologie oncologiche.

Sebbene gli effetti positivi siano numerosi, è bene sottolineare che non tutti possono praticare il digiuno intermittente. Anche nei soggetti sani, soprattutto in fase iniziale, possono verificarsi disturbi del sonno, irritabilità, ansia, disidratazione e sonnolenza diurna. Per questa ragione deve essere necessariamente eseguito sotto il controllo di un medico, per verificare l’idoneità del paziente ed evitare pericolosi scompensi elettrolitici.

Si tratta di uno strumento dalle notevoli potenzialità, se maneggiato con scienza e coscienza da professionisti esperti. L’improvvisazione non è mai una buona scelta!

 

DIGIUNO INTERMITTENTE: mangiare meno per vivere di più

Tornata alla ribalta negli ultimi tempi, la pratica del digiuno intermittente in realtà ha radici molto antiche. Dagli uomini primitivi ai nostri antenati più recenti, l’uomo è sempre stato abituato a convivere con la scarsa disponibilità e reperibilità di cibo. Il boom economico però ha stravolto le abitudini alimentari della società moderna. Il cibo, soprattutto quello industrializzato e raffinato, è diventato accessibile in ogni momento e in ogni luogo perdendo così la sua primaria funzione di nutrimento e divenendo piuttosto un surrogato.

In realtà mangiare meno e/o meno spesso innesca una serie di meccanismi metabolici in grado di aumentare la forza e la capacità di resistere alla fatica e allo stress fisico. Gli studi condotti sui benefici del digiuno hanno portato all’elaborazione di uno schema alimentare chiamato Digiuno Intermittente o Intermittent Fasting. Questo protocollo prevede l’alternanza di periodi di digiuno e periodi di normale alimentazione, declinati secondo diverse modalità.

Uno dei metodi più praticati è il 5 su 2 (“Fast diet”), che prescrive 2 giorni la settimana di restrizione calorica e un regime alimentare normale negli altri 5 giorni.

Un altro approccio è il cosiddetto 8-16: in questo caso i pasti vengono consumati in una precisa finestra temporale di 8 ore, mentre nelle restanti 16 ore si osserva il digiuno. Ad esempio, se il primo pasto è alle 8 del mattino, l’ultimo sarà alle 16.

Un’ulteriore tecnica è la dieta Mima Digiuno elaborata da Valter Longo che impone solo 5 giorni consecutivi di restrizione calorica ogni 3-6 mesi. Questo programma, spesso accettato e seguito più facilmente dai pazienti, stimola nell’organismo una reazione molto simile a quella del digiuno vero e proprio.

Le ricerche hanno dimostrato che il digiuno intermittente, grazie agli effetti della restrizione calorica prolungata, favorisce la perdita della massa grassa, senza intaccare quella magra e migliora lo stato di salute generale. Per questo trova diversi campi di applicazione: dal trattamento dell’obesità al miglioramento del profilo metabolico, ma anche come regolare abitudine all’interno di uno stile di vita sano.

Si è visto che il mangiare poco è il minimo comune denominatore delle aree del mondo in cui si concentrano i più alti tassi di longevità. Se praticato correttamente, il digiuno intermittente infatti costituisce un vero e proprio allenamento per l’organismo che è quindi costretto a produrre una risposta riparatrice e rinvigorente. Davanti ad un ridotto apporto calorico il corpo regola i propri livelli ormonali: produce una maggior quantità di GH, ormone della crescita, favorendo la sintesi proteica che aumenta la disponibilità di grassi da usare come fonte energetica. In questo modo la perdita di peso è a carico della massa grassa, preservando quella magra.

L’alternanza tra fasi di digiuno e alimentazione normale migliora anche i livelli di insulino-resistenza, responsabili dell’accumulo dei grassi: il corpo quindi riesce a mantenere un metabolismo più funzionale ed efficiente. Per questa ragione il digiuno intermittente è indicato nella prevenzione del diabete di tipo 2.

Inoltre, secondo alcune ricerche il digiuno stimola l’autofagia, ossia la rimozione delle cellule danneggiate, favorisce i processi rigenerativi e il rinnovo cellulare.

Queste dinamiche permettono all’organismo di sviluppare una maggiore resistenza allo stress sia di tipo fisico, chimico e biologico, ritrovando forza e contrastando gli effetti dell’invecchiamento.

 

DIETA MEDITERRANEA: più sani, più a lungo

Esportata in tutto il mondo, la dieta mediterranea è un modello nutrizionale basato sulle abitudini alimentari dei Paesi che si affacciano su questo specchio d’acqua e di cui l’Italia è da sempre considerata emblema.

La caratteristica principale di questo tipo di alimentazione è la ripartizione dei macronutrienti: 60% carboidrati, 25-30% grassi e 10-15% proteine.

La dieta mediterranea prevede infatti un largo consumo di cereali e legumi, dunque carboidrati a basso indice glicemico, accompagnati da proteine sia di origine vegetale che animale, come pesce, uova e carne bianca. La principale fonte di grassi è l’olio extravergine d’oliva che previene le malattie cardiovascolari e l’arteriosclerosi , e grazie all’elevato tenore di polifenoli, svolge una potente azione antiossidante e antinfiammatoria.

Vista la generosità della terra e il clima favorevole, frutta e verdura di stagione non mancano mai in tavola. Soddisfano il fabbisogno di vitamine e minerali e limitano l’apporto calorico della dieta grazie all’elevato contenuto di acqua e al potere saziante delle fibre, in grado di riequilibrare il carico glicemico degli alimenti. Proprio per questa ragione, si consiglia di accompagnare la pasta, meglio se integrale, con della verdura.

Si raccomanda inoltre il consumo di frutta sin dal primo mattino, poiché grazie al contenuto di zuccheri fornisce energie per affrontare la giornata, e negli spuntini fuori pasto. Anche la frutta secca è un ottimo alleato della dieta Mediterranea: noci e mandorle apportano aminoacidi preziosi per il nostro organismo. Consumate regolarmente in porzioni di 15-20 gr al giorno, aiutano a ridurre i livelli di colesterolo “cattivo” (LDL) e forniscono una buona dose di magnesio, utile per stimolare la concentrazione.

Da assumere con moderazione, il vino rosso, prodotto tipico dei Paesi Mediterranei, grazie alla presenza di polifenoli, flavonoidi e resveratrolo svolge un’azione antiossidante e neuroprotettiva che lo rende preferibile rispetto ad altre bevande alcoliche.

I primi studi sui benefici della dieta mediterranea risalgono agli anni ‘50. Da allora la ricerca ha fatto passi da gigante e ha portato alla luce i numerosi vantaggi di questo stile alimentare sulla prevenzione e cura di diverse patologie.

Gli studi dimostrano come una dieta ricca di frutta, verdura, noci, cereali, olio extravergine e modeste quantità di vino rosso, che svolgono una funzione protettiva per il nostro cervello, possa ridurre il rischio di sviluppare malattie neurodegenerative come l’Alzheimer.

Grazie all’elevato contenuto di grassi insaturi, fibre, vitamine e oligominerali che contrastano la formazione dei radicali liberi, la dieta Mediterranea ha un effetto antinfiammatorio e antiossidante che abbassa il rischio di sviluppare patologie oncologiche.

Si è visto che seguire un’alimentazione ispirata ai principi della dieta mediterranea, combatte l’insorgere di malattie metaboliche, come obesità, diabete e ipertensione, che, a loro volta, aumentano il rischio cardiovascolare.

L’abbondanza di vitamine e oligominerali presenti negli alimenti e il bilanciamento tra macro e micronutrienti ha un’azione protettiva verso numerose patologie croniche poiché rafforza il sistema immunitario e combatte l’invecchiamento cellulare (anti-aging).

“Fa che il cibo sia la tua medicina” sosteneva Ippocrate, già nel 300 a.C., e nessuna citazione riassumerebbe meglio i prinicipi della dieta mediterranea, oggi.

 

OMOCISTEINA: acido folico e vitamina B per combattere l’iperomocisteinemia

Di recente si è tornati a parlare di omocisteina, oggetto di diversi studi per appurare la correlazione esistente tra i livelli alti di questo amminoacido e il rischio di sviluppare diverse patologie. Facciamo un passo indietro per capire esattamente di cosa si tratta.

L’omocisteina deriva dalla metabolizzazione della metionina, un aminoacido essenziale che il nostro organismo non è in grado di sintetizzare in maniera autonoma e pertanto deve essere introdotto con l’alimentazione. Fondamentale per la fisiologica eliminazione dei metalli pesanti, per il benessere delle cartilagini, così come delle unghie e dei capelli, la metionina è presente in diversi alimenti proteici come carne, uova, pesce, legumi e alcuni cereali. Ogni volta che mangiamo proteine, il corpo trasforma la metionina in esse contenuta in omocisteina grazie alle vie metaboliche. Quando le vie metaboliche si saturano, l’omocisteina entra in circolo causando un innalzamento dei livelli contenuti nel plasma. Questo fenomeno, chiamato iperomocisteinemia, è considerato un importante fattore di rischio per le malattie cardiovascolari (aterosclerosi e infarto del miocardio), ma non solo. Sempre più studi evidenziano la correlazione che c’è tra un eccesso di omocisteina e lo sviluppo di malattie neurodegenerative (demenza senile e Alzheimer) e muscoloscheletriche (osteoporosi e artrite reumatoide).

Pertanto è bene monitorare costantemente questo valore insieme a quello della vitamina B12 e dell’acido folico grazie ad un semplicissimo prelievo di sangue.

Tuttavia se gli esami evidenziano elevati livelli di omocisteina, saranno necessarie ulteriori indagini per individuarne la causa. L’iperomocisteinemia può essere dovuta ad anomalie congenite, a terapie farmacologiche, infezioni o malassorbimento intestinale, stress, ansia, malnutrizione o ancora cattive abitudini alimentari. Si è visto che la maggior parte dei pazienti affetti da iperomocisteinemia segue una dieta povera di vitamine del gruppo B (in particolare B6 e B12) e di folati, indispensabili per il metabolismo dell’omocisteina.

Un corretto apporto quotidiano di queste vitamine, grazie ad una dieta mirata e all’assunzione di integratori specifici, se necessario, insieme ad una regolare attività aerobica è la prima forma di cura e prevenzione per abbassare i livelli plasmatici di omocisteina.

Anche il Ministero della Salute, nel documento che contiene le linee guida per la prevenzione dell’aterosclerosi, risalente al 2004, inserisce l’iperomocisteinemia tra i fattori di rischio e consiglia l’assunzione di acido folico, vitamina B6 e B12.

 

VITAMINA D: tutti i benefici della vitamina del sole

La vitamina D viene in grande parte accumulata dal nostro organismo attraverso l’esposizione ai raggi solari e va integrata soprattutto, ma non solo, in situazioni particolari, legate alla crescita, alla gravidanza e all’allattamento.
In natura la vitamina D si presenta sotto due forme: la vitamina D2 (o ergocalciferolo), presente prevalentemente nei vegetali, e la vitamina D3 (o colecalciferolo), che viene sintetizzata dal nostro organismo in seguito all’esposizione ai raggi solari.

Solo un terzo del fabbisogno giornaliero di vitamina D proviene dall’alimentazione, mentre il restante deve essere in ogni caso ricavato dall’esposizione al sole o, in sua mancanza, da integratori.
Tuttavia, un consumo regolare dei cibi che ne sono più ricchi può in parte contribuire a controbilanciare l’insufficiente produzione di vitamina D3, soprattutto nei periodi di minore esposizione ai raggi solari, come nei mesi autunnali e invernali.
Tra gli alimenti che contengono le maggiori quantità di vitamina D ricordiamo soprattutto alcuni tipi di pesce, come il salmone, le sardine, lo sgombro, il tonno e merluzzo; i derivati del latte intero; le uova e i funghi secchi.

La vitamina D, regolando il metabolismo del calcio e del fosforo, è utile nell’azione di calcificazione delle ossa e nel mantenimento dell’equilibrio della struttura del tessuto osseo nel corso della vita adulta.
L’esperienza clinico-pratica e gli studi scientifici condotti negli ultimi anni stanno aprendo a nuove ipotesi riguardo le funzioni della vitamina D, che può essere definita un “para-ormone”, dal momento che permette il corretto funzionamento di circa tremila geni. La vitamina D risulta essere importante sia nella secrezione insulinica (nel controllo del diabete tipo II) e nel dimagrimento, sia nell’integrità cardiovascolare, nella cancerogenesi (legata alla crescita e differenziazione cellulare), nelle malattie auto-immuni e nella funzione del tessuto muscolare e di quello nervoso.

Dal momento che la vitamina D interviene nella regolazione di innumerevoli funzioni metaboliche fondamentali, un suo apporto insufficiente, se protratto a lungo, potrebbe portare allo sviluppo di innumerevoli disturbi e disfunzioni.
Ecco perché è fondamentale mantenere adeguati livelli di vitamina D, sia in fase di sviluppo per evitare problemi legati al rachitismo e allo sviluppo di fragilità e malformazioni ossee, sia in età adulta per scongiurare problematiche legate alla perdita di massa ossea (osteopenia) e all’osteoporosi.

Come già illustrato, la fonte di vitamina D per eccellenza è l’esposizione alla luce solare. Sono sufficienti 20 – 30 minuti al giorno in pieno sole per assicurarsi tutti i benefici. I tempi di esposizione possono variare a seconda della stagione, della latitudine alla quale si abita e del fototipo di appartenenza della pelle.
La vita moderna, tuttavia, si svolge sempre meno all’aria aperta e questo spiega come mai molte persone abbiano un deficit di vitamina D, indipendentemente dal tipo di dieta seguito. Appare spesso necessario, quindi, ricorrere all’integrazione di vitamina D, che andrebbe assunta preferibilmente con dosi quotidiane (da 1000 a 4000 UI a seconda dei casi) e non a dosi settimanali o mensili, per raggiungere valori ottimali di concentrazione nel sangue pari a 50-60 ng/ml.
Un supplemento di vitamina D può essere particolarmente utile durante la gravidanza, poiché è stato osservato che l’esposizione del feto a quantità insufficienti di vitamina D può incidere negativamente sullo sviluppo scheletrico nei primi anni di vita.

COACHING NUTRIZIONALE: il percorso per un’alimentazione consapevole

Esperto in Medicina Anti-Aging e perfezionato in Dietetica e Nutrizione, il Dottor Emanuele De Nobili vanta una certificazione anche nel campo del Coaching Nutrizionale, acquisita attraverso corsi di alta formazione. Oltre a comprendere appieno l’esperienza alimentare del paziente, guidandolo in modo efficace nel percorso nutrizionale, l’attività del Dottor De Nobili ne valorizza la componente psicologica e motivazionale.

Il coaching nutrizionale è una specializzazione volta al raggiungimento degli obiettivi legati all’alimentazione e alla dieta. Le persone interessate a seguire questo tipo di terapia si incentrano nell’acquisizione di abitudini alimentari salutari.

Il coaching nutrizionale può essere definito come una metodologia di lavoro che offre supporto nel raggiungimento di obiettivi e nella modifica delle proprie abitudini alimentari. In questo modo la persona identifica e supera i propri ostacoli, crea l’ambiente adeguato e adotta l’atteggiamento e la determinazione necessari per raggiungere il cambiamento nella propria alimentazione, riuscendo a sua volta a migliorare altri aspetti personali e dello stile di vita.

In nessun caso comunque il coach nutrizionale sostituisce il lavoro del professionista sanitario con competenze in nutrizione, come il medico o il nutrizionista, ma integra le sue conoscenze tecniche e il trattamento indicato, offrendo il supporto necessario per raggiungere la disposizione e la motivazione verso il cambiamento nello stile di vita del cliente.

Nelle sessioni di coaching il coach non segue il paziente solo nell’ambito nutrizionale, ma lavora anche a livello psicologico ed emotivo affinché sia lo stesso cliente a responsabilizzarsi circa il proprio processo di cambiamento, arrivando ad adottare, così, delle abitudini di vita salutari e durature. Per fare ciò il coach motiva e guida il paziente, potenziandone autostima e fiducia nelle proprie abilità.

Una delle differenze principali tra il coaching nutrizionale e il modello tradizionale delle diete riguarda proprio il ruolo ricoperto dal paziente.
Il coaching nutrizionale si identifica, infatti, come una metodologia pro-attiva, in cui il concetto di paziente cambia da soggetto passivo a soggetto attivo, il quale si assume la responsabilità delle proprie azioni, cosciente dell’importanza di prendersi cura di se stesso. Questa visione fa sì che l’interessato sia il centro e l’origine delle possibili soluzioni o miglioramenti.

Si tratta, dunque, di un lavoro personalizzato tra coach e coachee con l’obiettivo di capire in che modo la vita attuale del paziente contribuisca all’adozione di comportamenti poco salutari, per poi intervenire con strategie ottimali nel cambiamento nella condotta.

Hai mai pensato di seguire una sessione di Coaching Nutrizionale? Il Dottor De Nobili ti offrirà il supporto per rimetterti in forma e aumentare l’autostima!

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