NUTRIGENETICA: la dieta perfetta? Chiedila al tuo DNA.

Se ogni individuo possiede un DNA unico che lo identifica, allora esiste l’alimentazione perfetta per ciascuno di noi? La nutrigenetica si occupa appunto di fornire una risposta a questa domanda.

Ciascun individuo possiede al suo interno un manuale di istruzioni per il corretto funzionamento dell’organismo, chiamato DNA e scritto da oltre 30.000 geni. Ognuno ha il proprio e non esistono “doppioni”. Gli esseri umani condividono il 99,9% del loro patrimonio genetico, che li rende abbastanza simili nelle caratteristiche fisiche. Ma è proprio in quello 0,1% che si riassume l’unicità dell’individuo. Queste peculiarità genetiche dunque determinano una risposta diversa da persona a persona davanti all’assunzione del medesimo alimento. L’obiettivo della nutrigenetica è elaborare una dieta personalizzata sulla base dello studio del DNA, facilmente eseguibile grazie ad un campione di saliva prelevato con un tampone orale. I nostri geni dunque sanno esattamente qual è la dieta giusta per noi: quali sono i cibi funzionali al benessere dell’organismo e quali invece sono nocivi.

Tuttavia il DNA non è da considerarsi come l’artefice di un destino ineluttabile. Infatti lo sviluppo dell’individuo non è condizionato soltanto dal suo patrimonio genetico (genotipo), ma anche dalla sua interazione con l’ambiente, ossia dall’epigenetica. Questa dunque è un’ottima notizia, che non lascia spazio a scuse. Anche se non abbiamo la possibilità di modificare il DNA con cui nasciamo, possiamo però intervenire sul nostro stile di vita per ritrovare il benessere e prevenire l’insorgere di diverse patologie dall’Alzheimer ai tumori, dalle malattie cardiovascolari a quelle metaboliche.

Conoscere il proprio DNA infatti permette di sviluppare degli interventi nutrizionali mirati a partire dal genotipo del singolo per raggiungere gli obiettivi di salute e prevenzione. Si è visto che alcuni alimenti sono in grado di accendere e spegnere in modo esclusivo determinati interruttori, ossia i geni. Naturalmente i recettori coinvolti e gli alimenti interessati variano da persona a persona. Solo attraverso lo studio del DNA è possibile individuare per ciascuno quali alimenti hanno la capacità di attivare e potenziare il corretto funzionamento dei geni e quali invece sono dannosi. Di conseguenza, se sappiamo esattamente quali “pulsanti” schiacciare, attraverso la dieta possiamo stimolare i “geni del benessere”. Diversamente, ignorando questo potente meccanismo e commettendo scelte alimentari scorrette, rischiamo di disattivare questi recettori e compromettere i meccanismi di autoriparazione del DNA: un circolo vizioso che porta ad un invecchiamento precoce, allo sviluppo di processi infiammatori e di malattie croniche.

Il GENODIET® System è un protocollo altamente innovativo che permette di elaborare programmi alimentari specifici sulla base di test genetici complementari.

Il GENODIET® Health analizza le principali vie metaboliche: colesterolo, predisposizione a iperglicemia e insulino-resistenza, vitamina D, calcio e magnesio, vitamina B9 e B12. Inoltre permette di valutare lo stato antiossidante e di infiammazione cronica.

Il GENODIET® Sensor esamina le principali intolleranze alimentari di origine genetica (come lattosio e glutine) e le sensibilità a sale, ferro, nichel, caffeina e alcol.

Infine il GENODIET® Slim fornisce indicazioni precise sulla sensibilità del proprio organismo ai carboidrati, ai diversi tipi di grassi e alle proteine.

Nessuno ti conosce bene come i tuoi geni: la dieta perfetta per te è già scritta nel tuo DNA!

 

OSSIGENO-OZONO TERAPIA: i tre atomi del benessere

L’ossigeno-ozono terapia è un trattamento che utilizza una combinazione di ozono e ossigeno a scopo terapeutico. L’ozono (simbolo O3) è un gas composto da 3 atomi di ossigeno dal caratteristico odore agliaceo: una sorta di ossigeno potenziato, con notevoli proprietà terapeutiche. Nelle giuste concentrazioni e nel rispetto dei giusti dosaggi, costituisce un trattamento sicuro e particolarmente duttile.

In primo luogo, svolge un’importante azione di ossigenazione: l’ozono aumenta la capacità del sangue di ossigenare i tessuti, favorendo di conseguenza la riattivazione del microcircolo e una potente azione anti aging. Inoltre, la somministrazione di un agente ossidante come l’ozono risveglia gli enzimi antiossidanti che difendono l’organismo dall’attacco dei radicali liberi. Per questo, l’ossigeno-ozono terapia risulta utile nel contrastare le patologie croniche spesso correlate allo stress ossidativo. In più, viene largamente adoperato nei processi di disinfezione per le sue proprietà antibatteriche, antivirali e antifungine.

Grazie alle diverse proprietà terapeutiche l’ossigeno-ozono terapia trova numerosi campi di applicazione in medicina. Le modalità di somministrazione sono diverse e variano a seconda della patologia da trattare. Tra le procedure di più diffuse c’è l’autoemoterapia. Consiste cioè nel prelevare dal paziente stesso, per via endovenosa, attraverso uno specifico kit per infusione collegato all’ozonizzatore una quantità di circa 150 ml di sangue che successivamente viene esposta ad una miscela di ossigeno e ozono. In questo modo il sangue subisce delle modificazioni biochimiche per essere poi rimesso in circolo a circuito chiuso per via endovenosa. Questa tecnica permette al sangue venoso di ossigenarsi. Le pareti dei globuli rossi guadagnano elasticità e migliora la loro capacità di apportare ossigeno ai tessuti. A seconda della quantità di sangue usata e della modalità di esecuzione, è possibile distinguere la “Grande Autoemoterapia” (GAET) e la “Piccola Autoemoterapia” (PAET). La GAET viene impiegata soprattutto nel trattamento di deficit circolatori poiché riattiva il microcircolo e l’ossigenazione in tutte le parti del corpo, ma anche nella cura di malattie di origine virale e batterica. La PAET è invece usata soprattutto nel trattamento delle malattie che richiedono una spinta o una regolazione del sistema immunitario, comprese le allergie.

Nel trattamento di malattie intestinali infiammatorie si ricorre invece all’insufflazione dell’ozono per via rettale. Ma non è tutto. L’ossigeno-ozono terapia trova ampio spazio in ambito ortopedico, nella cura delle malattie osteoarticolari per la sua azione analgesica e antinfiammatoria. Le iniezioni intra articolari, infatti, risultano efficaci in caso di artrosi e artrite poiché permettono il rilascio di fattori di crescita che favoriscono la rigenerazione osteoarticolare, oltre ad alleviare i sintomi del dolore. L’ozono è raccomandato anche nel trattamento di protrusioni o ernie discali sotto forma di infiltrazioni intramuscolari locali. Infine per le sue proprietà antibatteriche, antivirali e fungicide è utile in caso di ferite infette o di dermatiti.

Recenti studi dimostrano la validità dell’ossigeno ozonoterapia anche in oncologia, come coadiuvante durante il trattamento di chemio e radioterapia. Affiancata al protocollo terapeutico, l’ozono terapia svolge una duplice azione: da un lato contrasta gli effetti collaterali della chemioterapia, dall’altro ne potenzia i benefici. Si è visto che la scarsità di ossigeno indebolisce le difese immunitarie dell’organismo e crea un ambiente acido, ideale per la proliferazione delle cellule tumorali. L’ozono, invece, aumenta l’ossigenazione dei tessuti: in questo modo rinforza le difese immunitarie e alcalinizza l’ambiente, contrastando la crescita del tumore.

Come abbiamo visto, l’ossigeno-ozono terapia presenta diverse indicazioni terapeutiche. Solitamente il protocollo prevede un ciclo iniziale di 6-10 sedute a cadenza  bisettimanale, seguite da una seduta mensile di mantenimento. La versatilità e la sicurezza di questo trattamento, rendono l’ossigeno-ozono terapia un prezioso alleato di salute e benessere.

 

STRESS OSSIDATIVO: prevenire è meglio che ossidarsi!

Come abbiamo visto finora, quando si altera quel delicato equilibrio tra produzione e  “smaltimento” di radicali liberi il nostro organismo va incontro allo stress ossidativo. Una diagnosi precoce può dunque fare la differenza. Grazie alla tecnologia FREE Carpe Diem è possibile analizzare i livelli di stress ossidativo in maniera globale. Si eseguono su un piccolo prelievo ematico 2 semplici test diagnostici in grado di misurare i radicali liberi (d-ROMs Test), ossia “l’attacco”, ma anche il potenziale antiossidante (BAP Test), ossia “la difesa”. Il d-ROMs test (Metaboliti reattivi all’ossigeno) infatti rileva lo stato di ossidazione del sangue misurato in “Unità Caratelli” (CARR). Giusto per dare qualche dato numerico: un soggetto in buone condizioni di salute presenta valori compresi tra 250 e 300 Unità CARR. Valori superiori a 300 CARR esprimono uno stato di stress ossidativo. In genere, valori superiori ai limiti sono dovuti ad una maggiore esposizione ai fattori di rischio per lo stress ossidativo, che abbiamo esaminato in precedenza. Tra le principali cause ricordiamo uno stile di vita poco sano. Ad esempio, l’abuso di alcol e il fumo concorrono ad aumentare sensibilmente i livelli di stress. Così come un’alimentazione squilibrata, povera di vitamine e ricca di grassi o un esercizio fisico inappropriato.

Il BAP Test (Biological Antioxidant Potential) invece misura il potenziale biologico antiossidante: quantifica cioè la capacità del nostro organismo di contrastare lo stress ossidativo. Un organismo sano è in grado di difendersi dallo stress ossidativo mediante sistemi interni. Tali meccanismi sono controllati da sostanze antiossidanti endogene, ossia prodotte dall’organismo stesso, ed esogene, ossia acquisite dall’esterno, ad esempio attraverso l’alimentazione. Questo test è in grado di rilevare la concentrazione ematica di alcune importanti sostanze antiossidanti quali bilirubina, acido urico, vitamine C ed E e proteine. Questa concentrazione è espressa in Micromoli (microM). In condizioni ottimali di salute il BAP Test riporta un valore superiore a 2200 micromoli/L, che viene considerato come il valore ottimale. Generalmente, valori inferiori a questo sono indicativi di una dieta squilibrata e/o di un eccesso di radicali liberi.

Incrociando i risultati di questi 2 Test è possibile inquadrare esattamente la situazione e, ove necessario, intervenire in modo sinergico per ripristinare i parametri di un equilibrio fisiologico dell’organismo. È evidente che la prima forma di prevenzione passa inesorabilmente attraverso uno stile di vita sano. Eliminare il fumo, limitare il consumo di alcol, seguire una dieta varia, ricca di frutta e verdura sicuramente contribuiscono a ridurre i livelli di stress ossidativo. Laddove l’organismo non sia in grado di far fronte da solo all’attacco dei radicali liberi o vi sia un aumentato fabbisogno di antiossidanti, può essere utile un programma di integrazione studiato sulla base delle specifiche esigenze di ciascuno. Come abbiamo evidenziato in precedenza, i rischi correlati allo stress ossidativo sono spesso irreversibili. Quando la prevenzione è così facile, conviene approfittarne prima che sia troppo tardi. Prevenire è meglio che ossidarsi!

Radicali liberi: nemici di salute e giovinezza

Se presenti nelle giuste quantità, i radicali liberi svolgono un’importante funzione per il nostro organismo poiché combattono l’insorgere di alcune malattie. Per contro, l’eccesso di radicali liberi è oltremodo nocivo e correlato a numerose patologie. Ascoltando ed osservando il nostro corpo è possibile individuare alcuni campanelli d’allarme.

Ad esempio, l’invecchiamento precoce della pelle è uno dei primi sintomi di stress ossidativo. La pelle diventa secca, perde elasticità e si segna più velocemente soprattutto in viso. Così come capelli sfibrati, fragili e pieni di doppie punte potrebbero essere indice di un eccesso di radicali liberi. Inoltre alcuni studi sostengono che c’è una correlazione tra le malattie infiammatorie della pelle, come ad esempio la psoriasi, e lo stress ossidativo. Sembrerebbe infatti che lo stress ossidativo indebolisca le difese immunitarie dell’organismo, favorendo così gli stati infiammatori. Secondo alcune ricerche pare che lo stress ossidativo sia anche alla base di un’altra patologia della pelle: la vitiligine, che si manifesta con la comparsa di chiazze biancastre sulla cute a causa di una ridotta quantità di melanina. Nei soggetti che ne soffrono è stato riscontrato un deficit dell’enzima catalasi, la cui funzione principale è bloccare il radicale perossido di idrogeno. I capelli e la pelle, dunque, esprimono non soltanto il nostro aspetto esteriore, ma rivelano lo stato di salute dell’intero organismo: i segni dell’invecchiamento cutaneo tradiscono infatti i danni ed il deterioramento cui tutti gli altri organi stanno andando incontro.

Tanto è vero che lo stress ossidativo aumenta il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari o processi arteriosclerotici. L’ossidazione infatti trasforma il “colesterolo buono” in “colesterolo cattivo”, che viene poi mandato in circolo con il sangue. Il colesterolo cattivo (LDL) in eccesso tende ad accumularsi sulla parete dei vasi fino a creare una placca arteriosclerotica che progressivamente cresce, rallentando così il flusso del sangue. Questo fenomeno nel tempo può indurre a gravi complicazioni come infarto del miocardio, trombosi e ictus.

L’ossidazione lipidica, causata da un’eccessiva quantità di radicali liberi, non coinvolge solo l’apparato cardiovascolare ma anche il fegato. Favorendo l’accumulo di grasso nelle cellule epatiche aumenta il rischio di steatosi epatica, patologia comunemente nota come “fegato grasso”. Sono sempre più numerosi poi gli studi che dimostrano la correlazione che c’è tra le malattie neurodegenerative come il morbo di Parkinson e l’Alzheimer, ad esempio, e l’elevato livello di stress ossidativo. Si è visto come l’eccesso di radicali liberi determini un’alterazione mitocondriale e intacchi direttamente il DNA delle cellule. Ed è proprio l’alterazione del DNA uno dei principali fattori di rischio nello sviluppo dei tumori. A tal proposito entrano in gioco gli antiossidanti, che svolgono un ruolo chiave nella prevenzione. Un consumo quotidiano di almeno 5 porzioni di frutta e verdura, fonti naturali di vitamine e antiossidanti, riducono il rischio di tumori. Nello specifico la combinazione di vitamina C e vitamina E è molto efficace nel contrastare l’azione dei radicali liberi, ostacolando quindi la formazione di cellule cancerogene.

Le conseguenze dello stress ossidativo interessano tutte le cellule dell’organismo. Elevati livelli di radicali liberi possono portare all’infertilità sia maschile sia femminile poiché compromettono l’integrità tanto degli ovuli quanto degli spermatozoi. Lo stress ossidativo può condizionare anche la funzionalità della tiroide, causando infiammazione e alterando la sintesi degli ormoni tiroidei. Il deterioramento causato dai radicali liberi non risparmia certamente le ossa, che sono tra le prime a risentire dello stress ossidativo. L’ossidazione infatti è tra le principali cause di osteoporosi, una malattia sistemica dello scheletro che porta alla demineralizzazione e fragilità delle ossa. Sono inoltre ancora in corso degli studi che proverebbero la correlazione tra lo stress ossidativo e la fibromialgia. Si tratta di una patologia caratterizzata da dolore muscolare cronico e rigidità delle articolazioni, causate da un eccesso di radicali liberi.

Dunque se i danni causati dallo stress ossidativo si manifestano nel tempo, la medicina anti aging offre una preziosa opportunità di prevenzione nell’immediato.

 

STRESS OSSIDATIVO: una bomba ad orologeria

Cresce sempre più l’interesse della comunità scientifica impegnata nella battaglia anti aging attorno allo stress ossidativo, ad oggi ritenuto tra i principali responsabili dell’invecchiamento cellulare.

In condizioni ottimali di salute c’è un buon equilibrio tra la fisiologica produzione di radicali liberi e la loro neutralizzazione da parte dei meccanismi antiossidanti dell’organismo. Quando si altera questo delicato equilibrio, gli antiossidanti non sono più in grado di contrastare i radicali liberi che prendono il sopravvento e crescono in modo esponenziale. Un vero e proprio incendio dove i piromani – ossia i radicali liberi – hanno la meglio sui pompieri – ossia gli antiossidanti. È questa l’immagine che meglio descrive i danni causati dallo stress ossidativo, associato all’invecchiamento precoce e a numerose malattie croniche e degenerative.

Sono svariate le cause che determinano l’aumento dei radicali liberi e possono essere interne all’organismo, ossia endogene, e/o esterne all’organismo, ossia esogene.

Tra le cause endogene individuiamo ad esempio particolari mutazioni genetiche responsabili di una minore funzionalità di alcuni enzimi antiossidanti come catalasi, superossido dismutasi e glutatione. Il deficit di questi sistemi favorisce l’insorgere dei processi di ossidazione poichè l’organismo è meno efficace nel contrastare la formazione dei radicali liberi. Lo stress ossidativo inoltre è spesso correlato alla presenza di malattie metaboliche. Nel caso del diabete, ad esempio, l’ossidazione è causata dagli elevati livelli di glicemia. Mentre, sovrappeso e obesità inducono uno stato di infiammazione delle cellule adipose, che liberano una maggiore quantità di radicali liberi. Si è visto anche come l’eccessiva attività fisica a lungo andare possa rivelarsi dannosa per l’organismo poiché provoca un’esagerata accelerazione del metabolismo cellulare e, di conseguenza, il suo precoce invecchiamento.

Tra le principali cause esogene invece ricordiamo le radiazioni UV. Un’eccessiva esposizione al sole infatti non solo provoca un invecchiamento della pelle ma aumenta anche la produzione di radicali liberi, in grado di causare alterazioni del nostro materiale genetico. Pertanto si raccomanda sempre l’uso di un filtro protettivo adeguato al proprio fototipo e un’esposizione graduale, evitando le ore più calde. Anche le radiazioni ionizzanti, come i raggi X, e alcune sostanze chimiche, come il benzene e i metalli pesanti, favoriscono l’incremento dei processi di ossidazione dell’organismo.

Inoltre è sempre più evidente la correlazione che c’è tra uno stile di vita poco sano e l’aumento dei livelli di stress ossidativo. Il fumo e l’abuso di alcol ad esempio sono tra i principali fattori di rischio. Per contro, una dieta ricca di frutta e verdura può garantire all’organismo un adeguato apporto di sostanze antiossidanti in grado di contrastare la formazione dei radicali liberi. Via libera dunque a frutti di bosco, mirtilli, ribes nero, fragole, melograno e prugne: preziosi alleati anti aging perché hanno un elevato tenore di antiossidanti come flavonoidi e polifenoli. Ma anche pomodori, carote, broccoli, spinaci e mele hanno importanti proprietà antiossidanti come betacarotene, licopene e quercetina, giusto per citarne alcuni.

Dunque se lo stress ossidativo è influenzato in buona parte dallo stile di vita e alimentare che seguiamo, è anche vero che ogni giorno abbiamo la possibilità di preservare il benessere e la salute del nostro organismo attraverso scelte consapevoli e responsabili. Diversamente sarà come avere tra le mani una vera e propria bomba ad orologeria, senza artificieri pronti a disinnescarla.

Cos’è la disbiosi intestinale e come prevenirla?

La disbiosi è un’alterazione della flora batterica. Solitamente il termine disbiosi è accompagnato da un aggettivo che indica la parte del corpo interessata: ad esempio disbiosi vaginale o disbiosi orale. Comunemente quando si parla esclusivamente di disbiosi si indica un’alterazione sia quantitativa sia qualitativa della flora batterica intestinale. Nel nostro intestino, soprattutto in quello crasso, si concentrano un’infinita quantità di batteri buoni, di batteri cattivi e di altri patogeni come virus e miceti. Come si è detto negli articoli precedenti, è importante preservare il benessere della flora batterica intestinale che svolge un’azione difensiva in grado di proteggere l’organismo dall’attacco dei batteri patogeni. L’alterazione di questo delicato equilibrio provoca l’aumento dei batteri cattivi, pericolosi per il nostro organismo.

Sono diverse le cause che possono provocare la disbiosi intestinale. Alla base vi è spesso un’alimentazione scorretta poiché la flora batterica intestinale si nutre soprattutto di residui di cibo non assorbiti. L’eccessivo consumo di zuccheri, alcool e grassi a fronte di un insufficiente apporto di fibre come frutta e verdura danneggia il microbiota intestinale. Anche l’assunzione di farmaci come antibiotici (non solo assunti su base prescrittiva ma soprattutto derivanti dalla zootecnia) e lassativi contribuisce ad impoverire il microbiota. Solitamente somministrate per debellare le infezioni causate dai batteri, le terapie antibiotiche distruggono insieme ai batteri “cattivi” anche una parte di quelli “buoni”.
Le possibili cause della disbiosi vanno anche ricercate nello stile di vita. Ritmi frenetici, stress e alterazione del ritmo sonno-veglia determinano l’aumento del cortisolo, favorendo la diminuzione dei batteri buoni e l’aumento di quelli patogeni. Inoltre poiché l’intestino è il nostro secondo cervello, risente anche di eventuali stati depressivi o di ansia.

La disbiosi si manifesta attraverso diversi sintomi. I più comuni colpiscono l’apparato gastrointestinale: gonfiore addominale, meteorismo dopo i pasti, flatulenza, nausea, vomito e stitichezza alternata a diarrea. Soprattutto nelle donne la disbiosi intestinale provoca spesso infezioni genitali ricorrenti come candida e vaginiti. Naturalmente quelli elencati sono solo alcuni dei sintomi più frequenti, ma la disbiosi può causare anche altri disturbi come alterazione del sonno, stanchezza e irritabilità.

Uno degli strumenti più efficaci e semplici per diagnosticare la disbiosi è l’analisi delle feci con un test che mira ad analizzare il microbioma intestinale. Dopo essersi accertati che si tratta di disbiosi è importante ripristinare il normale equilibrio della flora batterica. In prima istanza occorre quindi limitare i fattori aggravanti come i farmaci antibiotici e gli alimenti sospetti. Alle volte però i sintomi della disbiosi non sono riferibili ad un solo alimento, ma a determinate famiglie alimentari: come nel caso della disbiosi putrefattiva e fermentativa. La disbiosi putrefattiva è dovuta soprattutto ad un’alimentazione ricca di grassi animali e carni, ma povera di fibre e può essere aggravata dal concomitante uso di antibiotici. Chi ne soffre lamenta per lo più sintomi di stitichezza e meteorismo. In questo caso si raccomanda l’assunzione di fermenti lattici probiotici come bifidobatteri o integratori a base di fibre, controindicati invece in caso di disbiosi fermentativa. Quest’ultima è causata soprattutto da una dieta ricca di zuccheri e di carboidrati complessi, da cui traggono nutrimento i batteri cattivi che ne sono responsabili. In questo caso, occorre indagare sull’eventuale presenza di intolleranze alimentari e seguire una dieta specifica povera di amidi e zuccheri semplici.

Attraverso uno stile di vita sano e alcuni piccoli accorgimenti è possibile prevenire la disbiosi: escludere gli alimenti confezionati e gli zuccheri raffinati, limitare il consumo di alcool e l’assunzione di farmaci sono i primi passi per prendersi cura del proprio intestino.

Batteri “nemici” dell’intestino: quali sono e come evitarli

Se dovessimo pensare a quale parte del nostro corpo è più esposta agli attacchi dei batteri probabilmente la prima risposta che ci viene in mente è la pelle. Ma non è così. Nel nostro intestino risiedono stabilmente tra le 500 e le 1000 specie di batteri diversi che svolgono diverse funzioni vitali. In questo complesso ecosistema convivono batteri “buoni”, ossia non patogeni, e batteri “cattivi”, ossia patogeni. In condizioni normali, vi è una prevalenza di batteri buoni che garantiscono una condizione fisiologica del microbiota e proteggono l’intestino dagli attacchi patogeni. Di qui la fondamentale importanza di preservare quella condizione di equilibrio tra le diverse specie che popolano l’intestino, chiamata eubiosi.

Uno stile di vita poco sano e un’alimentazione scorretta distruggono questo delicato equilibrio, favorendo la proliferazione dei “batteri cattivi”. Questi ultimi si nutrono soprattutto di residui alimentari che il nostro corpo non è riuscito ad assorbire e che ristagnano nell’intestino. La flora batterica intestinale, ad esempio, ha la capacità di creare degradazione putrefattiva dalle proteine non digerite e non assorbite. Non a caso, si è visto che una dieta iperproteica favorisce la proliferazione di batteri intestinali putrefattivi. Ma i problemi non finiscono qui. Attraverso la decomposizione delle proteine i batteri cattivi sono in grado di produrre diverse sostanze tossiche come ammine, ammoniaca, fenoli e solfuri, responsabili di processi infiammatori. Tra le varie tossine che questi batteri liberano nel colon vi sono inoltre anche sostanze potenzialmente cancerogene come putrescina, cadaverina e spermidina. Sono sempre più numerosi gli studi che dimostrano come una dieta ricca di carne e grassi animali, ma povera di frutta e verdura, possa favorire il rischio di sviluppare il tumore del colon-retto.

Sotto accusa non vi è solo l’eccessivo consumo di proteine animali. Anche una dieta ricca di zuccheri raffinati contribuisce ad alimentare la flora batterica intestinale nociva. Infatti dagli zuccheri e dai lieviti traggono nutrimento prezioso i batteri responsabili di infezioni della mucosa intestinale e vaginale, come la candida. In effetti, gli studi dimostrano come i batteri siano in grado di orientare anche le nostre scelte alimentari: ci spingono cioè a consumare quegli alimenti che garantiscono la loro sopravvivenza e proliferazione. Pertanto quando abbiamo un’irrefrenabile voglia di dolci e grassi non stiamo soddisfacendo solo il nostro palato, ma anche le richieste dei nostri batteri intestinali.

Nell’ambito dello studio del microbioma, il test Flora è uno degli strumenti più validi per effettuare un’analisi quantitativa e qualitativa della flora intestinale. Attraverso una PCR real-time (Reazione a Catena della Polimerasi) eseguita su un campione di feci, il test permette di esaminare quali e quante sono le specie batteriche presenti nel microbioma di un individuo. Questo test è molto utile nella diagnosi della disbiosi poiché consente di evidenziare eventuali squilibri patologici della flora batterica intestinale.

 

Batteri buoni: lattobacilli e bifidi

La flora batterica intestinale o microbiota è un ecosistema popolato da miliardi di microrganismi, per lo più batteri, suddivisi tra le 500 e le 1000 specie. L’equilibrio di questo complesso ecosistema in cui convivono batteri buoni (non patogeni) e batteri nocivi (patogeni) contribuisce al nostro benessere. La prevalenza dei batteri buoni rispetto a quelli patogeni è espressione di un buono stato di salute dell’intestino, il quale svolge un ruolo prezioso per il nostro organismo: ricordiamoci che ospita circa il 70% del sistema immunitario

Il benessere della flora batterica dipende dalla competizione fra i ceppi di batteri buoni: anche se può sembrare paradossale, la loro cooperazione mina la stabilità di questo delicato ecosistema. Se le diverse specie batteriche collaborano si instaura, infatti, un rapporto di dipendenza delle une dalle altre, innescando un circolo vizioso. Se una di esse precipita, ad esempio, finisce inevitabilmente col trascinare con sé quella con cui coopera, rompendo gli equilibri della flora batterica. L’alterazione del microambiente porta ad una proliferazione incontrollata dei batteri nocivi che prendono il sopravvento sui batteri buoni. Questa condizione si chiama disbiosi.      In condizioni normali invece, la flora batterica e l’organismo vivono in una perfetta armonia, chiamata eubiosi.

Tra tutti i microrganismi attivi nella nostra flora batterica intestinale, i più noti e diffusi anche negli alimenti sono i lattobacilli e i bifidobatteri.
I lattobacilli ripristinano lo squilibrio della flora intestinale, migliorano la digestione, favoriscono l’assimilazione dei nutrienti dal cibo e contrastano il meteorismo. Il Lactobacillus Acidophilus, ad esempio, interviene nel controllo del colesterolo, promuove l’assimilazione delle vitamine del gruppo B e facilita la digestione del latte. I lattobacilli svolgono inoltre una potente funzione antibiotica. Come nel caso del Lactobacillus Bulgaricus che produce un antibiotico naturale, utile nel contrastare l’insorgere di infezioni come cistiti, vaginiti e candida. Grazie alla capacità di fermentare il lattosio e altri zuccheri, producono infine l’acido lattico, che contribuisce a rendere l’ambiente acido e preserva l’integrità dei tessuti.

I bifidobatteri, caratterizzati da una forma bifida simile ad una Y, permettono soprattutto la digestione delle fibre e dei carboidrati complessi, che l’organismo non riesce a metabolizzare in maniera autonoma. Producono acidi grassi a catena corta (ad esempio l’acido butirrico), indispensabili per la salute dell’intestino e per il controllo della fame. Intervengono inoltre nella produzione delle vitamine del gruppo B e la vitamina K, utile per la prevenzione delle malattie cardiovascolari e dell’osteoporosi.

Un’alimentazione sana e variata favorisce il benessere della flora intestinale e permette di introdurre la giusta quantità di probiotici. Alimenti fermentati come yogurt e kefir, ad esempio, hanno un alto tenore di probiotici vivi. Nella dieta non devono inoltre mai mancare cereali integrali e cibi ricchi di fibre, di cui i bifidobatteri si nutrono, e le giuste quantità di frutta e verdura di stagione.

Trapianto di microbiota intestinale: un’arma nell’arsenale della medicina moderna

Cresce sempre più l’attenzione sul trapianto di microbiota intestinale. Una pratica antichissima che affonda le proprie radici nella medicina cinese. Consiste nel trapiantare il materiale fecale da un donatore sano ad un soggetto affetto da una determinata malattia o condizione.

Tra le diverse procedure, la più utilizzata e meno invasiva è per via orale attraverso capsule gastroresistenti. Ad oggi il trapianto di microbiota intestinale è considerato una delle pratiche più innovative per modificare il microbioma intestinale e riportarlo ad un corretto funzionamento. Questa tecnica infatti supera i limiti degli approcci tradizionali. In primo luogo, perché la maggior parte della flora batterica che popola il nostro intestino non è coltivabile attraverso le tecniche microbiologiche di laboratorio. In secondo luogo, si è visto che i batteri presenti nelle feci umane hanno la capacità di colonizzare l’intestino in maniera permanente, a differenza di quelli alimentari o industriali che rimangono nell’apparato intestinale per circa due settimane.

Il trapianto di microbiota intestinale dunque rappresenta una potentissima arma nell’arsenale della medicina moderna nella lotta contro i batteri multiresistenti e le malattie che alterano il microbioma intestinale. Per questo è indicato nella cura di tutte quelle infezioni intestinali causate da batteri resistenti agli antibiotici e difficilmente trattabili farmacologicamente. Gli antibiotici infatti da una parte riescono a diminuire il livello di infezione, dall’altra però distruggono la biodiversità della flora batterica, indebolendo le difese immunitarie. Si instaura così un circolo vizioso che spesso determina una ricaduta al termine del trattamento antibiotico.

Con il trapianto di microbiota invece è possibile introdurre una flora batterica sana nel paziente, ripopolando il suo intestino e tenendo l’infezione sotto controllo. Questa capacità di regolare la disbiosi e normalizzare il microbioma lo rende particolarmente efficace anche nei casi di rettocolite ulcerosa, morbo di Crohn e nella colite pseudomembranosa sostenuta dal Clostridium difficile.

Poiché la flora intestinale influisce nell’assimilazione degli alimenti, il trapianto di microbiota intestinale rappresenta un’opportunità anche nella cura delle malattie metaboliche come il diabete e l’obesità. Nello specifico, uno studio condotto sui topolini germ-free dimostra in modo chiaro la correlazione tra microbioma e obesità. Prelevato il microbioma di due gemelli, uno obeso e l’altro magro, viene impiantato ciascuno in un topo germ-free. A distanza di tempo, si è visto che a parità di dieta il topo con il microbioma del soggetto obeso tende ad ingrassare; mentre il topo con il microbioma del soggetto magro mantiene lo stesso peso di partenza.

Nell’esperimento successivo viene impiantato il microbioma del topo magro nel topo grasso, osservando che quest’ultimo comincia a dimagrire grazie al progressivo modificarsi del microbioma intestinale, pur seguendo la stessa alimentazione di prima.

Nei soggetti obesi risulterebbe alterata la proporzione esistente tra Firmicutes e Bacteroidetes, che rappresentano normalmente più del 90% dei batteri che popolano il nostro intestino e che intervengono nell’estrazione delle calorie ingerite con il cibo. Recenti studi sembrano dimostrare che i Firmicutes hanno un’implicazione nell’assorbimento del glucosio, per questo una prevalenza di quest’ultimi sarebbe associata al rischio di sovrappeso, obesità e scompensi della glicemia.

Il trapianto di microbiota intestinale rappresenta uno dei trattamenti più innovativi del XXI secolo, in grado di offrire una cura per una vasta gamma di malattie e di gettare nuova luce sul ruolo del microbioma nelle malattie gastrointestinali e non solo.

Il microbioma dipende dall’età

Il microbioma subisce delle variazioni legate alla nostra età. Possiamo pensare al nostro microbioma come ad una specie di carta di identità, unica per ciascuno di noi, capace di rivelare molte informazioni preziose sul nostro conto. A cominciare dall’età.

E’ evidente che il microbioma di un bambino presenta una composizione diversa rispetto al microbioma di un uomo anziano. Si è visto che nel grembo materno il nascituro è pressoché sterile, quasi totalmente privo di batteri. Diversi studi dimostrano che già dopo quattro giorni dalla nascita il microbioma intestinale nel neonato cambia. Il tipo di parto determina la qualità e la quantità dei batteri che colonizzano l’intestino del bambino. Durante il parto naturale, il neonato entra in contatto con l’immensa popolazione batterica presente nel tratto vaginale della madre. Questo primo contatto favorisce lo sviluppo delle difese immunitarie del bambino. I bambini nati con taglio cesareo invece presentano un microbioma sovrapponibile a quello materno solamente a livello cutaneo, non vaginale. Si è visto infatti che i bambini nati da cesareo sono più esposti a soffrire di coliche gassose nei primi mesi di vita e di colon irritabile in età adulta.

Anche la modalità di allattamento è fondamentale nella composizione del microbioma. L’allattamento al seno per almeno 6 mesi permette al bambino di sviluppare tra il 90 e il 99% di bifidobatteri in più. Tale percentuale scende drasticamente al 68% con la somministrazione di latte artificiale. Nel primo anno di vita la composizione del microbioma cambia rapidamente e si arricchisce grazie all’interazione con l’ambiente esterno. Dal secondo anno di vita in poi, il microbioma intestinale del bambino somiglia sempre di più a quello di un adulto e comincia a stabilizzarsi.

La colonizzazione che avviene nei primi anni di vita influenza la composizione del microbiota in età adulta. Il microbioma comunque è in continuo mutamento. Sono molteplici i fattori che possono influenzarlo: alimentazione, stress, ambiente, patologie, farmaci, situazioni ormonali. Tuttavia queste variazioni, con l’avanzare dell’età diventano molto più lente. L’invecchiamento dunque si accompagna ad un processo di immunosenescenza e ad una perdita della biodiversità del microbioma intestinale. Questo progressivo indebolimento del sistema immunitario favorisce lo sviluppo di uno stato di infiammazione cronica.

Numerosi studi confermano il ruolo fondamentale del microbioma intestinale nel prevenire e contrastare l’infiammazione cronica legata all’invecchiamento o ad altre condizioni di fragilità. Nello specifico, si è visto che probiotici e prebiotici sono alleati preziosi per la salute del microbioma intestinale dell’anziano. Favoriscono il ripristino della biodiversità della flora batterica e supportano il sistema immunitario con una conseguente riduzione degli stati infiammatori.

Per concludere, la medicina rigenerativa e antiaging che si occupa di prevenire l’insorgere della malattia e contrastare gli effetti dell’invecchiamento non può prescindere dallo studio del microbioma.

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