SINDROME DELL’OVAIO POLICISTICO: la dieta per combattere l’insulino-resistenza

Uno tra i principali sintomi della sindrome dell’ovaio policistico è il sovrappeso, correlato spesso all’insulino-resistenza. L’insulina è un ormone, secreto dal pancreas, che permette il passaggio del glucosio nelle cellule, regolando la sua concentrazione nel sangue. In presenza di insulino-resistenza, le cellule sono meno sensibili all’azione di questo ormone. Di conseguenza le “solite” quantità di insulina non sono più sufficienti per trasportare il glucosio all’interno delle cellule, ma l’organismo è costretto a produrne una maggiore quantità per mantenere costante la glicemia. L’aumento dei livelli di insulina però si accompagna anche ad un aumento del peso corporeo, poiché si tratta di un ormone lipogenico che provoca l’accumulo di tessuto adiposo. Infatti, oltre ad essere la principale causa di infertilità femminile, la sindrome dell’ovaio policistico aumenta il rischio di diabete e di malattie cardiovascolari. Per questo motivo è di fondamentale importanza intervenire sull’insulino-resistenza, a partire da uno stile di vita sano basato su una dieta equilibrata ed una regolare attività fisica.

Perdere almeno il 10% del peso corporeo favorisce il fisiologico equilibrio ormonale e riduce il rischio di malattie metaboliche. Molti studi dimostrano che nelle donne insulino-resistenti, a parità di calorie fornite, risulta più efficace una dieta iperproteica rispetto ad una normoproteica. Grazie al ridotto apporto di zuccheri, le diete iperproteiche o chetogeniche favoriscono la perdita di massa grassa e l’incremento di massa magra, aumentando il metabolismo basale e preservando il tono muscolare. Per mantenere l’insulina bassa e costante è bene “mangiare poco e spesso”: dividere il fabbisogno calorico della giornata in 5 o 6 piccoli pasti, composti da alimenti a basso indice glicemico (IG). Meglio evitare gli zuccheri raffinati, optando invece per i cereali integrali come segale, orzo e avena che, grazie all’elevato tenore di fibre, rallentano l’assorbimento dei nutrienti e contribuiscono a regolare i livelli della glicemia. Anche la modalità di cottura incide sull’indice glicemico degli alimenti: le alte temperature della frittura o della brace innalzano l’IG dei cibi; mentre la bollitura o il vapore, decisamente più salutari, lo abbassano.

Per difendersi dal colesterolo “cattivo” è bene evitare il consumo di grassi, soprattutto quelli saturi e idrogenati: prestando attenzione non soltanto ai condimenti, ma anche ai grassi presenti naturalmente negli alimenti. È bene quindi limitare il consumo di formaggi, uova, insaccati e carne rossa, optando piuttosto per le carni magre, preferibilmente bianche. Via libera al pesce, in particolare quello azzurro, ricco di omega 3 e omega 6 che svolgono un’importante azione antinfiammatoria e riducono il rischio di malattie cardiovascolari.

In tavola non devono mai mancare frutta e verdura fresche di stagione, che garantiscono un prezioso apporto di antiossidanti, vitamine, sali minerali e fibre. Da bere sotto forma di centrifugati o da gustare come spuntino, depurano l’organismo e favoriscono il senso di sazietà in poche calorie. Eliminare il fumo e ridurre il consumo di alcol sono abitudini salutari, raccomandate sempre e comunque nell’ottica di uno stile di vita sano. Così come una regolare attività fisica: è sufficiente praticare 35 minuti al giorno di attività aerobica come la camminata, la corsa o il nuoto per ridurre i livelli di colesterolo e di insulina, favorire il mantenimento del peso forma e migliorare la funzionalità ovarica.

Come diceva Einstein ,“stupidità significa fare e rifare la stessa cosa aspettandosi risultati diversi”. Non è mai facile abbandonare le proprie abitudini, pur nella consapevolezza che sono scorrette, ma alle volte è necessario per percorrere la strada verso il benessere.

 

Trapianto di microbiota intestinale: un’arma nell’arsenale della medicina moderna

Cresce sempre più l’attenzione sul trapianto di microbiota intestinale. Una pratica antichissima che affonda le proprie radici nella medicina cinese. Consiste nel trapiantare il materiale fecale da un donatore sano ad un soggetto affetto da una determinata malattia o condizione.

Tra le diverse procedure, la più utilizzata e meno invasiva è per via orale attraverso capsule gastroresistenti. Ad oggi il trapianto di microbiota intestinale è considerato una delle pratiche più innovative per modificare il microbioma intestinale e riportarlo ad un corretto funzionamento. Questa tecnica infatti supera i limiti degli approcci tradizionali. In primo luogo, perché la maggior parte della flora batterica che popola il nostro intestino non è coltivabile attraverso le tecniche microbiologiche di laboratorio. In secondo luogo, si è visto che i batteri presenti nelle feci umane hanno la capacità di colonizzare l’intestino in maniera permanente, a differenza di quelli alimentari o industriali che rimangono nell’apparato intestinale per circa due settimane.

Il trapianto di microbiota intestinale dunque rappresenta una potentissima arma nell’arsenale della medicina moderna nella lotta contro i batteri multiresistenti e le malattie che alterano il microbioma intestinale. Per questo è indicato nella cura di tutte quelle infezioni intestinali causate da batteri resistenti agli antibiotici e difficilmente trattabili farmacologicamente. Gli antibiotici infatti da una parte riescono a diminuire il livello di infezione, dall’altra però distruggono la biodiversità della flora batterica, indebolendo le difese immunitarie. Si instaura così un circolo vizioso che spesso determina una ricaduta al termine del trattamento antibiotico.

Con il trapianto di microbiota invece è possibile introdurre una flora batterica sana nel paziente, ripopolando il suo intestino e tenendo l’infezione sotto controllo. Questa capacità di regolare la disbiosi e normalizzare il microbioma lo rende particolarmente efficace anche nei casi di rettocolite ulcerosa, morbo di Crohn e nella colite pseudomembranosa sostenuta dal Clostridium difficile.

Poiché la flora intestinale influisce nell’assimilazione degli alimenti, il trapianto di microbiota intestinale rappresenta un’opportunità anche nella cura delle malattie metaboliche come il diabete e l’obesità. Nello specifico, uno studio condotto sui topolini germ-free dimostra in modo chiaro la correlazione tra microbioma e obesità. Prelevato il microbioma di due gemelli, uno obeso e l’altro magro, viene impiantato ciascuno in un topo germ-free. A distanza di tempo, si è visto che a parità di dieta il topo con il microbioma del soggetto obeso tende ad ingrassare; mentre il topo con il microbioma del soggetto magro mantiene lo stesso peso di partenza.

Nell’esperimento successivo viene impiantato il microbioma del topo magro nel topo grasso, osservando che quest’ultimo comincia a dimagrire grazie al progressivo modificarsi del microbioma intestinale, pur seguendo la stessa alimentazione di prima.

Nei soggetti obesi risulterebbe alterata la proporzione esistente tra Firmicutes e Bacteroidetes, che rappresentano normalmente più del 90% dei batteri che popolano il nostro intestino e che intervengono nell’estrazione delle calorie ingerite con il cibo. Recenti studi sembrano dimostrare che i Firmicutes hanno un’implicazione nell’assorbimento del glucosio, per questo una prevalenza di quest’ultimi sarebbe associata al rischio di sovrappeso, obesità e scompensi della glicemia.

Il trapianto di microbiota intestinale rappresenta uno dei trattamenti più innovativi del XXI secolo, in grado di offrire una cura per una vasta gamma di malattie e di gettare nuova luce sul ruolo del microbioma nelle malattie gastrointestinali e non solo.